Negli ultimi mesi abbiamo provato a gridarlo nelle piazze, a scriverlo, a dirlo persino educatamente. Che il mercato del lavoro in Italia ha molti difetti, meno che quello di un’eccessiva rigidità in uscita. Eppure non facciamo altro che sentire la teoria che da noi non si assumono i giovani perché non si possono licenziare i vecchi. Una teoria
predicata dalla Banca centrale europea, accreditata da insigni giuslavoristi, rimbalzata nei salotti televisivi. Che adesso sembra ridotta a una storiella.
Così suona a chi la flessibilità in uscita la vive sulla propria pelle da anni, ma è abituato a chiamarla più semplicemente precarietà, licenziabilità, ricattabilità.
A certificare che in Italia di flessibilità ce n’è pure troppa, sono i dati appena diffusi dall’Istat: il 71,5% dei nuovi lavoratori viene reclutato con contratti temporanei e alla
scadenza del contratto la metà rimane a casa. I dati Istat non fanno altro che
confermare quanto già diffuso negli ultimi anni dall’Osservatorio sulla Precarietà
della Sapienza: in Italia ci sono circa due milioni e trecentomila lavoratori con contratti a tempo determinato, quasi ottocentocinquantamila parasubordinati, oltre
duecentomila partite Iva a rischio precarietà. E sarebbe interessante indagare il
fenomeno della monocommittenza nell’universo dei lavoratori autonomi individuali senza dipendenti e collaboratori: un esercito di oltre tre milioni di persone. E questo sarebbe un mercato poco flessibile, dove il problema principale è l’articolo 18?
Alcune considerazioni per il governo Monti da parte di chi non ha mai avuto un contratto stabile da quando lavora: l’articolo 18 non c’entra niente con la precarietà dei giovani. Anche perché, stando alle ipotesi in circolazione, si vorrebbe introdurre la
possibilità di licenziare individualmente solo i nuovi assunti.
Ovvero, nella maggior parte dei casi, proprio i giovani. Per un giovane lavoratore il
dibattito sull’articolo 18 e sulla cassa integrazione appare stucchevole e strumentale per almeno tre motivi: perché nella maggior parte dei casi un giovane è già assunto con un contratto a termine, perché molto spesso lavora in imprese con meno di quindici dipendenti dove la licenziabilità è già consentita, perché moltissimi giovani svolgono – o almeno ci provano – attività autonome e non come dipendenti. E quindi
sono fuori da ogni garanzia, figuriamoci l’articolo 18. Un’altra considerazione:
dopo le finte partite Iva, il governo Monti eviti di incentivare il fenomeno delle finte imprese. Consentire ai giovani sotto ai 35 anni di aprire un’impresa a un euro – con la
nobile motivazione di incentivare l’imprenditoria giovanile – rischia di favorire la nascita di migliaia di nuove imprese semplicemente allo scopo di eludere alcune norme, a svantaggio dei lavoratori. Sarebbe l’ennesimo espediente per mascherare sotto forma di impresa i rapporti di lavoro dipendente, aprendo la possibilità ai nuovi soggetti di fare concorrenza alle imprese virtuose nel campo della sicurezza, dell’antiriciclaggio, del diritto del lavoro. Il governo Monti vuole incentivare l’impresa individuale, la libera iniziativa, i giovani lavoratori realmente autonomi? Bene, li valorizzi fornendo loro la possibilità di ricevere in maniera agevolata formazione di alto profilo, consulenza mirata per l’innovazione e l’export, accessibilità al credito, servizi alla famiglia e protezioni sociali in caso di difficoltà economica. È più complicato dell’impresa a un euro ma i tecnici servono proprio a questo.
*Associazione XX Maggio e promotore Comitato 9 Aprile
L’Unità 02.01.12