Se vogliamo riflettere sulla crisi della politica dobbiamo ragionare contemporaneamente sullo stato delle istituzioni; e più specificamente dei sistemi politici. Lo dico riferendomi all’Italia ma non soltanto ad essa. Assistiamo certamente, da qualche tempo, all’appannarsi di determinati moventi dell’impegno politico, inteso come impegno di effettiva e durevole partecipazione. Tra i moventi che si sono affievoliti si può collocare quella che ritengo sia giusto chiamare la forza degli ideali, e la stessa percezione del ruolo insostituibile della politica. Insostituibile in quanto decisivo per la soluzione dei problemi di cambiamento e sviluppo della società, cui si legano i destini individuali e collettivi nel quadro nazionale e internazionale.
Ma se tale percezione si è affievolita, insieme con la “forza degli ideali”, è anche per effetto di una perdita di efficacia, persuasività e inclusività del sistema politico. E mi riferisco alle istituzioni rappresentative, ai processi elettorali, ai partiti: una crisi da cui si può uscire solo attraverso riforme in tutti questi campi. D’altronde ben al di là dell’Italia la politica è in affanno e i sistemi politici sono in tensione. Guardiamoci attorno, nella vasta e varia Europa unita: vedremo in molti paesi fenomeni di disincanto, di distacco dalla politica, di più dubbiosa partecipazione ai confronti elettorali, e anche di indebolimento e di crisi di equilibri politici, di schemi di alleanza tra partiti affini, di modelli di alternanza e di stabilità che per lunghi periodi erano rimasti costanti apparendo ormai consolidati.
Hanno fatto il loro ingresso sulla scena politica ed elettorale soggetti nuovi – nella stessa Germania dopo la riunificazione, e in numerosi paesi dell’Europa centrale e settentrionale; si sono alterati preesistenti rapporti di forza; in più casi (finanche nel Regno Unito) schemi politici divenuti quasi consuetudini storiche hanno dovuto cedere il passo a soluzioni realisticamente improntate a maggiore duttilità.
C’è da chiedersi quanto, in Europa, le difficoltà, le fibrillazioni della politica e dei sistemi politici, riflettano la sempre più incerta sostenibilità di politiche pubbliche e di relazioni economico- sociali che hanno per lungo tempo garantito livelli elevati di benessere, specie nel quadro della costruzione comunitaria via via allargatasi fino ad abbracciare 15 paesi prima della svolta del 1989…
Nel corso di questo profondo cambiamento su scala mondiale si è nel 2008 innescata, partendo dagli Stati Uniti, una crisi finanziaria che ha investito anche l’Europa, e che si è, nel 2011, tradotta in una pressione concentrica sull’Eurozona, soprattutto sui debiti sovrani di paesi come l’Italia.
Le politiche di bilancio restrittive che è stato quindi, ed è, indispensabile adottare, e insieme il brusco contrarsi delle prospettive di crescita in tutta l’area dell’Eurozona, con ricadute su un’economia mondiale già in difficoltà nel suo complesso, hanno reso più evidenti e stringenti i rischi di insostenibilità degli equilibri economici e sociali consolidatisi in Europa nel passato, alimentando le inquietudini di vasti strati della popolazione, anche se in termini diversi da paese a paese.
Le risposte delle leadership politiche e di governo nazionali si sono fatte più incerte e problematiche; si è esteso in varie parti d’Europa il fenomeno di reazioni populiste, di aperto rigetto dei vincoli di corresponsabilità e solidarietà europea, di anacronistica difesa di posizioni acquisite e di privilegi corporativi. Non c’è dubbio che tutto questo abbia trovato sbocco nell’affermarsi di nuove formazioni di stampo, appunto, populistico e abbia più in generale eroso antiche basi di fiducia nella politica, nei partiti tradizionali, nelle istituzioni.
Ecco le spinte e le sfide fino a ieri imprevedibili cui deve far fronte la politica democratica in Europa. Questo è lo sfondo entro il quale va collocata anche la visione delle cose italiane. Io credo che si stiano tuttavia delineando alcuni campi d’intervento decisivi al fine di superare le contraddizioni e le crisi di questa fase cruciale: alcuni campi d’intervento che però richiedono e suggeriscono seri sforzi di riqualificazione culturale e programmatica da parte delle forze politiche eredi della dialettica democratica dispiegatasi validamente per un cinquantennio nell’Europa occidentale. E quei campi d’intervento cui mi riferisco possono segnare il nuovo perimetro entro il quale sono chiamati a competere e collaborare nel prossimo futuro partiti volti a caratterizzarsi per chiara e responsabile vocazione di governo.
Senza confondersi e nemmeno allearsi tra loro, questi partiti già oggi si cimentano su grandi problemi comuni: come quelli della definizione di nuove regole capaci di arginare e governare l’area tanto dilatatasi, anche in senso speculativo, della finanza e il potere di condizionamento dei relativi, incontrollati mercati globali. O come quelli della promozione di politiche di sviluppo sostenibile – anche socialmente sostenibile – secondo i principi della libertà d’iniziativa, della libertà degli scambi, del rispetto dei diritti umani e della dignità del lavoro…
È nello scenario che ho cercato di tratteggiare che confluiscono oggi le vicende della politica e delle istituzioni in Italia, dopo aver seguito un loro singolare percorso. Nei primi anni ’90 dovemmo uscire – sotto la spinta di un forte movimento di opinione, espressosi anche per via referendaria – da una peculiare condizione di “democrazia bloccata”, sfociata in una crisi, per taluni aspetti traumatica, del sistema dei partiti. Se ne uscì con una riforma in senso maggioritario della legge elettorale, e con un profondo rimescolamento e cambiamento negli schieramenti politici. Prese corpo anche nel nostro paese una democrazia dell’alternanza, che ha garantito un non trascurabile periodo di stabilità politico-governativa : pur in assenza di riforme istituzionali di riconosciuta necessità.
Quel che è accaduto in Italia nell’ultimo anno va in parte ricondotto al quadro europeo che ho richiamato in precedenza: il logoramento di un equilibrio politico che – nonostante il sussidio più rigidamente maggioritario della legge elettorale del 2005 – è stato scosso da contraddizioni interne alla alleanza di governo uscita vincente dalle elezioni, e senz’alcun dubbio dalle prove della crisi finanziaria globale e segnatamente di quella dell’Eurozona e dei debiti sovrani, tra i quali il nostro è risultato il più esposto. Il logoramento della maggioranza di governo e l’emergenza di un rischio di vero e proprio collasso finanziario pubblico hanno determinato la necessità di ricorrere anche in Italia a soluzioni non rinvenibili entro gli schemi ordinari, evitando un improvvido, precipitoso scioglimento del parlamento e avviando politiche ormai urgenti di risanamento finanziario e di riforma di non più sostenibili assetti economici e sociali.
Questo è stato il senso della soluzione rappresentata dal formarsi del governo Monti, e dal decisivo pronunciarsi di una larghissima parte del parlamento a suo sostegno col voto di fiducia. È nell’interesse comune che lo sforzo appena intrapreso, con significative proiezioni in sede europea, continui e si sviluppi in un clima costruttivo. Fuori discussione sono le prerogative del parlamento e le esigenze di un corretto confronto tra governo e forze sociali.
Non intervengo nel merito di alcuna questione politicamente o socialmente controversa: metto però in guardia contro la pericolosità di reazioni, a qualsiasi provvedimento legislativo, che vadano ben al di là di richieste di ascolto e confronto e anche di proteste nel rispetto della legalità, per sfociare nel ribellismo e in forzature e violenze inammissibili. E nello stesso tempo voglio sottolineare come il consolidarsi, nei prossimi mesi, in parlamento e nei rapporti politici, del clima costruttivo già delineatosi risponda all’interesse delle stesse forze politiche, per il superamento della crisi prodottasi nel loro rapporto con la società e con i cittadini.
Importanti a tal fine sono le prove che esse in gran parte hanno dato e stanno dando del loro senso di responsabilità sia cooperando attivamente all’adozione di scelte volte a fronteggiare le emergenze di questa fase critica, sul piano finanziario ed economico, per l’Italia e per l’Europa, sia predisponendosi ad affrontare temi molteplici, più che mai rimessi ai partiti e alle camere, di riforma delle istituzioni e delle regole parlamentari ed elettorali.
Si dovrà verificare in parlamento anche la possibilità di definire – o di prospettare credibilmente – revisioni di norme della seconda parte della Costituzione, come si riuscì a fare anni fa solo con la riforma del Titolo V in senso più conseguentemente autonomistico. L’apporto della politica resta dunque decisivo anche dopo la nascita di un governo senza la partecipazione di personalità rappresentative dei partiti. È a questi che spetta creare le condizioni per il rilancio di una competizione non lacerante – quando al termine della legislatura gli elettori saranno chiamati alle urne – e per il nuovo avvio di una dialettica di alternanza non più inficiata da una conflittualità paralizzante e non chiusa alle convergenze politiche che le esigenze e l’interesse del paese potranno richiedere.
Il saper aprire questa prospettiva appare oggi condizione essenziale perché i partiti e le istituzioni recuperino quella fiducia che si è venuta tanto indebolendo. E altre condizioni per recuperare fiducia e prestigio stanno in quello sforzo di riqualificazione culturale e programmatica che ho già indicato come necessario in Europa per le maggiori formazioni politiche. Esse stanno – in Italia – nell’abbandono da parte del mondo politico di comportamenti e di posizioni acquisite che hanno alimentato polemiche e reazioni di rifiuto devastanti, così come nella restituzione ai cittadini-elettori della voce che ad essi spetta innanzitutto nella scelta dei loro rappresentanti, e infine nella selezione di candidati a ruoli di rappresentanza istituzionale che presentino i necessari titoli di trasparenza morale e competenza.
Non ho esitato a evocare, o invocare, il ruolo dei partiti. Perché questo nodo è ineludibile, come possono dirci, con adeguato fondamento storico e teorico, gli scienziati – non onorari – della politica…Non si prenda l’abbaglio di ritenere che la soluzione sia offerta dal miracolo delle nuove tecnologie informatiche, dall’avvento della Rete: questa fornisce soltanto in modo fino a ieri imprevedibile accessi preziosi alla politica, inedite possibilità individuali di espressione e di intervento politico e anche stimoli all’aggregazione e manifestazione di consensi e di dissensi.
Ma anche canali da tempo consolidati – come quelli associativi – di educazione e avvicinamento alla politica, pur esercitando su di essa una non trascurabile influenza, non sono apparsi mai sostitutivi dei partiti. Non c’è partecipazione individuale e collettiva efficace alla formazione delle decisioni politiche nelle sedi istituzionali, senza il tramite dei partiti. I partiti possono – nelle situazioni concrete, nella cornice degli stati nazionali o anche delle istituzioni europee – conoscere periodi di involuzione e di decadenza, perdendo tra l’altro il senso del limite. Ma la sola strada che resta aperta è quella del loro auto-rinnovarsi.
Questo vorrei dire soprattutto ai giovani. Tra il rifiutare i partiti e il rifiutare la politica, l’estraniarsi con disgusto dalla politica, il passo non è lungo: ed è fatale, perché conduce alla fine della democrazia e quindi della libertà.
Della nobiltà della politica sono state d’altronde portatrici personalità significative, e non rare, dell’Italia repubblicana. E mi riesce naturale, qui a Bologna, tornare a ricordarne in particolare una, Nino Andreatta. Andreatta fu, in tutte le fasi della sua battaglia politica e della sua attività parlamentare e di governo, convinto e sapiente assertore delle scelte di fondo che fin dagli anni ’50 fecero dell’Italia un protagonista non marginale delle relazioni internazionali: la scelta europeista e la scelta atlantica. E io ancor oggi ritengo che decisivo sia stato l’essere via via riusciti, nei decenni passati, a fare di quelle due scelte fondamentali, dapprima contrastate politicamente e ideologicamente, la base condivisa di ogni possibile evoluzione dei rapporti tra forze politiche accomunate da un antico e costante ancoraggio ai principi della Costituzione repubblicana…
Ma mi si lasci ricordare l’apporto determinante che nello stesso senso dette una personalità del Pci in parlamento, il sen. Paolo Bufalini, con la stesura della risoluzione votata a larghissima maggioranza in senato nell’autunno del 1977, con cui per la prima volta anche il maggior partito della sinistra italiana si riconobbe nelle scelte di fondo dell’impegno europeistico e dell’alleanza Nato. Essi appartennero entrambi alla schiera di quei politici umanisti, nel senso più ampio e vitale dell’espressione, su cui l’Italia ha potuto contare e di cui avrà bisogno anche nel futuro. E dove ci si può formare come tali se non nelle università che si muovono nel solco della vostra, dell’Alma Mater di Bologna?
Accogliete dunque il mio augurio sincero per il nuovo anno accademico che vi vede impegnati in un ulteriore sforzo di rinnovamento e di apertura all’Europa.
Dalla lezione del presidente della repubblica “Le difficoltà della politica (in Europa e in Italia)” tenuta ieri a Bologna in occasione della laurea ad honorem
da Europa Quotidiano 31.01.12
Giorgio Napolitano