Il vertice di Bruxelles di ieri sera ha cercato di raggiungere tre obiettivi: il rafforzamento della disciplina comunitaria dei bilanci pubblici, con un nuovo «patto fiscale» fra i Paesi dell’area dell’euro; il rilancio di politiche comunitarie di crescita, che si affianchino alla disciplina di bilancio e ne contengano gli effetti depressivi di breve periodo; l’istituzione di un fondo salva-Stati permanente, in grado di finanziare a medio termine i Paesi in difficoltà, dando loro tempo di riequilibrare i bilanci con buone riforme strutturali, in modi sostenibili, senza precipitazione controproducente.
Sui tre fronti c’è stato un successo parziale. Il patto fiscale è il testo di un Trattato che sarà sottoscritto anche dai Paesi che non hanno l’euro, salvo la Gran Bretagna e la Repubblica Ceca. Si sovrappone in modi non del tutto chiari alla legislazione sugli squilibri macroeconomici che l’Ue ha appena varato con un lavoro lungo e complesso; rischia di essere una complicazione che, nella sostanza, non aggiunge quasi nulla salvo imporre ai Paesi di introdurre alcune norme della disciplina fiscale nella propria legislazione, possibilmente a livello costituzionale.
L’ intervento dell’Italia è stato determinante per evitare clausole del patto formulate con severità controproducente. Il patto è soprattutto un risultato formale che Angela Merkel vuole esibire per giustificare ai suoi elettori gli aiuti e le attenzioni che il mantenimento della stabilità finanziaria europea richiede vengano riservati ai Paesi in maggiore difficoltà.
Il rilancio delle politiche per la crescita e l’occupazione rimane affidato a dichiarazioni di intenzioni (dalle quali si è sottratta la Svezia), la più concreta delle quali sembra per ora la mobilizzazione di fondi strutturali comunitari non spesi. Anche qui la spinta italiana, e quella personale di Mario Monti, è servita a evitare che questo tema fosse trascurato. Speriamo che il rilancio divenga presto concreto, che si trasformi in misure visibili per i progressi del mercato unico.
Quanto al fondo salva-Stati non è ancora chiaro quale dimensione potrà raggiungere e quale flessibilità operativa potrà avere. Il suo compito è fondamentale, soprattutto per sollevare la Bce dalla funzione di supplenza dei governi che l’ha costretta fino ad ora a sostenere i debiti pubblici dei Paesi in crisi con acquisti diretti o indiretti, attraverso le banche che lei finanzia, andando oltre il breve termine al quale i suoi interventi dovrebbero limitarsi.
Ora occorre perfezionare e completare gli accordi, rifinendoli entro il prossimo vertice di marzo.
Ma i tasti da toccare, per rafforzare durevolmente la stabilità finanziaria europea, sono anche altri. Innanzitutto tutti i Paesi devono mostrare una volontà nazionale, interna e indipendente dagli obblighi comunitari, dai diktat del «podestà forestiero», di aggiustare i loro squilibri e fare riforme strutturali importanti. Da questo punto di vista l’Italia è su una strada più promettente della Francia e della Spagna: sarebbe eroico ma sconveniente aver salvato l’Europa con i nostri sforzi ma vederci travolti con l’Europa per i mancato sforzi altrui.
In secondo luogo i meccanismi di credito del fondo salva-Stati devono venir precisati e attuati in modi tecnicamente efficienti, senza interferenze e lungaggini politiche, e devono permettere di affermare senza equivoci un «principio di solidarietà», senza il quale un’Europa profondamente interdipendente non sta in piedi. Inoltre, la regolamentazione e la vigilanza su banche e altri intermediari e mercati finanziari richiedono nuove messe a punto: hanno dato luogo a provvedimenti controversi, non hanno superato il nazionalismo con cui i singoli Paesi tendono a proteggere e nascondere i guai dei propri intermediari, è ancora inadeguato il loro coordinamento con l’azione della Bce. Infine, occorre mettere a punto procedure adeguate e omogenee in tutta l’Ue, per consentire senza traumi e contagi lo scioglimento di banche insolventi e il default, cioè la ristrutturazione, dei debiti dei governi.
Non ha senso negare il default quando proprio la sua eventualità è alla base della disciplina di mercato, cioè della pressione con cui l’attacco ai titoli di Stato dei Paesi più indebitati li ha portati a prendere importanti misure di correzione e, addirittura, a cambiare i governi. In un certo senso la disciplina di mercato, con tutte le sue esagerazioni speculative, la sua discontinuità, i suoi errori di prospettiva, è stata l’unico motore di aggiustamento che ha veramente funzionato finora in questa crisi. Ma è una disciplina che presuppone la possibilità di default: è indispensabile che, almeno nel caso della Grecia, un default ordinato e regolato possa aver luogo al più presto, scaricando così parte del costo di aggiustamento di Atene sui suoi creditori imprudenti e opportunisti. Non dobbiamo temere che ciò trascini l’Italia in default: stiamo dando prova di essere in decente salute e, soprattutto, di saper avviare la correzione delle nostre debolezze con determinazione politica e capacità tecnica.
Nel complesso non c’è ragione di pensare che l’Europa non ce la farà, ma il vertice di ieri non ha ancora tolto l’impressione di disordine che dà il governo dell’economia e della finanza europea. Il Consiglio di marzo avrà modo di migliorare.
La Stampa 31.01.12