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"Il dramma sociale della disuguaglianza" di Massimo Riva

A stretto giro di posta dall´indagine di Bankitalia sul precipizio dei bilanci familiari nel 2010, ecco l´Istat fornire con le sue cifre inconfutabili la spiegazione principale dell´impoverimento progressivo di cui soffre una quantità sempre maggiore di italiani. Il dato cruciale sta nella forbice fra aumento dei salari e crescita dell´inflazione.

La paga oraria ha avuto un incremento dell´1,4 per cento su base annua, mentre i prezzi sono saliti del 3,3. Così segnando uno spread micidiale di quasi due punti percentuali (1,9 per l´esattezza) che non si registrava da diciassette anni a questa parte.
Fra le cause di questo differenziale l´Istat mette in primo piano i ritardi coi quali da tempo si arriva al rinnovo dei contratti collettivi di lavoro: mediamente ormai più di due anni dalla scadenza stabilita. Non dice, viceversa, perché la corsa dei prezzi sta riprendendo fiato nonostante il rallentamento dei consumi. Ma forse non è poi così difficile spiegare l´andamento dell´inflazione. Da un lato, l´Italia è da mesi nuovamente esposta sul suo fronte più vulnerabile: quello dei rincari petroliferi che, attraverso benzina e gasolio, si trasmettono a tutto il sistema. Dall´altro lato, il paese continua a dover fare i suoi conti (in perdita) con quella frattura economico-sociale di fondo che separa le categorie deboli e indifese per lo più del lavoro dipendente da quelle del lavoro autonomo in grado di tutelare il proprio potere d´acquisto con acconci aumenti delle proprie fatture.
Si ha così l´ennesima certificazione che in Italia la diseguaglianza economica e reddituale fra cittadini è in costante crescita con l´ulteriore effetto di aver bloccato quell´ascensore sociale che dagli anni del dopoguerra aveva – in certe fasi anche brillantemente – funzionato integrando nella vita della comunità le classi più diseredate. Con la crisi esplosa nel 2008 è cominciata in proposito una lenta ma progressiva marcia indietro: i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri, mentre arretra senza freni quella classe media che dovrebbe essere il luogo di amalgama e di pacificazione dei conflitti sociali.
Occorre fare molta attenzione a questa perversa distribuzione del reddito perché è su questo terreno che si giocano le carte decisive nella partita per il rilancio della crescita economica.
Si sta, infatti, realizzando quel classico modello di ingorgo malthusiano che in genere precede le fasi di depressione. Quando le ricchezze si concentrano in poche mani e la gran parte della società viene sospinta su livelli di penuria, si inaridisce quella linfa vitale di sostegno alle attività economiche che è la domanda per consumi. E ciò perché chi ha troppi soldi per quanto spenda tende inesorabilmente a impiegare la parte maggiore del suo denaro soprattutto in speculazioni finanziarie che poco o nulla hanno a che vedere con il rilancio degli investimenti produttivi di ricchezze reali oltre che di posti di lavoro. Come ammoniva, appunto, il bistrattato reverendo inglese quasi duecento anni prima di quel che è accaduto e sta ancora accadendo oggi sotto i nostri occhi.
Nel tornante attuale la questione salariale acquista più che mai, quindi, una connotazione che non ha senso ridurre soltanto a un problema di pur evidente giustizia sociale. Se non si mettono più soldi nelle tasche di coloro che aspettano soltanto di poterli spendere per avere un livello di vita meno indecente, non c´è speranza di riavviare quel circuito consumi-investimenti – occupazione che è la chiave di volta per rimettere in moto l´economia a vantaggio dell´intera collettività. Il successo della “fase due” del governo Monti – quella della crescita – passa inevitabilmente sulla forzatura di questo varco difficile ma non impossibile. E l´arma decisiva non può essere che quella di un Fisco stavolta forte coi forti e debole coi deboli (quelli veri).

da La Repubblica del 27 gennaio 2012

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“Divario salari-prezzi al record dal 1995 le retribuzioni sono ai minimi da 12 anni”, di VALENTINA CONTE

Gli italiani lavorano sempre di più solo per coprire le spese base: casa, auto, bollette e alimentari Nel 2011 aumenti medi in busta paga all´1,8%. Nello stesso periodo il costo della vita è cresciuto del 2,8%

Salari che crescono poco. Prezzi che crescono troppo. E lo “spread” che si allarga fino ad arrivare ai livelli degli anni ´90 quando c´era la lira, l´Italia rischiava il default, i conti erano disastrati e le manovre “lacrime e sangue” mettevano le mani nelle tasche (e nei conti correnti) degli italiani. Situazione non così lontana dall´Italia di oggi che l´Eurispes ritrae come un Paese “depresso”.
Divario record
Buste paga sempre più povere e inflazione galoppante ci riportano dunque indietro di tre lustri. E´ tutto nei numeri diffusi ieri dall´Istat. Nel mese di dicembre le retribuzioni, ferme rispetto a novembre, salgono solo dell´1,4% rispetto allo stesso mese del 2010, più che doppiate dai prezzi (+3,3%), la distanza maggiore dall´agosto del 1995. La musica non cambia se si considera l´intero anno: in tutto il 2011 i salari aumentano di appena l´1,8% sul 2010, mai così poco dagli albori del Giubileo (1999), mentre l´inflazione beatamente si impenna del 2,8%, segnando anche in questo caso uno scarto record tra salari-prezzi, più forte di quello registrato nel 1995.
Potere d´acquisto ai minimi
Cosa significa tutto questo? Quale impatto sulla vita di tutti i giorni? Innanzitutto, una forte erosione di potere d´acquisto e dunque la possibilità di comprare meno cose con lo stesso stipendio. Come conseguenza, consumi ancora più depressi, Pil ancora più basso, ammontare di debito pubblico più difficile da scalfire. «L´inflazione è molto elevata per la forte componente energetica. E´ questo che genera la forbice. E in un anno di recessione, come il 2012, mi aspetto che le retribuzioni crescano ancora meno», spiega Luigi Guiso, economista e docente allo European University Institute di Firenze. «Ma attenzione. Il paragone con il 1995 regge fino a un certo punto. In comune c´è la forte inflazione determinata da uno shock esterno: lì dovuta alla svalutazione del cambio (che però ci aiutava nelle esportazioni), ora tassa occulta pagata ai Paesi produttori di petrolio. Ma nel 1995 uscivamo da una grave crisi, già avviati verso la ripresa. Qui usciamo dalla stagnazione per rituffarci nella recessione. Le imprese chiudono e licenziano. Salari e consumi fermi. Una situazione meglio assimilabile alla fine degli anni ´70, allo shock energetico».
Salari troppo bassi
Negli ultimi sedici anni, in realtà lo “spread” retribuzioni-prezzi ha colpito poco. Solo nei primi anni duemila (dal 2000 al 2003) la forbice si è invertita a sfavore dei lavoratori, ma di pochi decimali di punto. Grazie all´euro, l´inflazione è stata domata e le buste paga in media sono cresciute del 3% e dunque il potere d´acquisto preservato, seppur senza sfarzo. Poi la crisi ha cambiato tutto e ci ha riportati al 1995, quando i prezzi correvano del 5,4%, ben più dei salari. Anno che ora addirittura superiamo. Non sono i prezzi oggi, quindi, a decidere la partita. Quanto gli stipendi sempre più bassi. Che giustificano l´indicatore della fiducia dei consumatori stabile a 91,6 a gennaio (come dicembre), il valore più basso dal 1996.
Esempi
La Cgia di Mestre ha confrontato due anni chiave (1995 e 2011) per valutare l´impatto del “costo della vita” sulle decisioni di spesa degli italiani, ovvero quanti giorni o mensilità di reddito occorrono per comprare le “cose”. Il risultato (vedi grafico in pagina) è abbastanza confortante per quanto riguarda il carrello della spesa, le bollette, abbigliamento e calzature, istruzione. Meno su altre voci. Ad esempio nel 2011 occorrono 5,3 paghe mensili in media per acquistare un´utilitaria contro le 4,8 nel 1995. Mentre servono 80 mensilità, quasi sette anni, rispetto alle 55 degli anni Novanta per un appartamento di circa 90 metri quadri.

da la Repubblica