Prendetela come vi pare ma, ci piaccia o no, la nostra Europa sta affrontando una fase di cambiamenti dalla quale emergerà diversa da quel che per molti secoli è stata e che per alcuni decenni si è illusa di continuar ad essere e di rimanere. Il decremento demografico e l’invecchiamento della popolazione – due fenomeni che sono facce della stessa medaglia – ci sta da tempo esponendo ad accettare un contributo umano sotto forma di migrazioni da paesi soprattutto africani e asiatici (ma anche latino-americani) che ci pone senza dubbio vari problemi di convivenza e d’integrazione e ci espone anche a valutare e in qualche misura ad accettare nuovi e diversi valori, provenienti da culture “altre”. I portatori di essi sono forzalavoro della quale abbiamo bisogno.
Per quanto alcuni segnali ci mostrino come i giovani europei (e, soprattutto, gli italiani) stiano recentemente tornando ad accettare occupazioni che fino a ieri rifiutavano in quanto troppo umili, o gravose, o malpagate. Non c’è dubbio che i nostri doveri di ospitalità non ci obbligano affatto – a parte le situazioni di emergenza umanitaria – ad aprir le braccia indiscriminatamente a chicchessia: è nostro diritto accettare fra noi solo un numero assorbibile e sostenibile di aspiranti residenti nel nostro paese e verificarne anche le qualità o comunque le potenzialità sia umane, sia religioso-culturali, sia etniche, sia professionali. Un certo periodo di prova, nel quale il nuovo arrivato con intenzioni di restare fra noi sia sottoposto al regime della residenza revocabile, è prudente e ragionevole.
Dopo di che, è ovvio che il residente che abbia superato la prova dimostrando di essere in grado di correttamente intergrarsi nella nostra comunità ne diventi cittadino a tutti gli effetti; così come è giusto che i suoi eventuali figli nati sul nostro territorio non passino un imprecisato periodo della loro vita come estranei fra noi, arrivando a finire le scuole e raggiungere la maturità anagrafica senza condividere i diritti, i doveri e insomma la vita degli amici e dei compagni insieme con i quali sono cresciuti.
Ma, sul Corriere della Sera di ieri, l’articolo di Giovanni Sartori «La cittadinanza agli immigrati? Una soluzione di buon senso» propone una soluzione diversa. La premessa è che, soprattutto in paesi più esposti di noi alla migrazione come Francia e Inghilterra, stiamo assistendo al fenomeno di una parte di immigrati «di terza generazione», da tempo accettati come cittadini, che «non si è affatto integrata. Vive in periferie ribelli e ridiventa, o sempre più diventa, islamica. Si contava di assorbirli e invece si scopre che i valori etico-politici dell’Occidente sono più che mai rifiutati».
Da ciò si passa alla proposta che chiunque entri nei nostri paesi in modo legittimo e con buone prospettive di lavoro diventi immediatamente «residente a vita», condizione trasmissibile ai figli. Intanto, il paese ospitante valuta se sia o meno il caso di assorbire i nuovi venuti, congelati nella loro condizione di residenti (e in costante pericolo di perderla e di venir cacciati).
Quanto dura questo limbo? Per sempre: difatti, il «residente» sarebbe tale «a vita». Salvo il caso in cui sgarri: se cioè viene per esempio pizzicato per una rapina, per traffico di droga e così via. In tal caso, il diritto di residenza viene immediatamente revocato ed egli viene rispedito al paese d’origine. I vantaggi di tale situazione, commenta Sartori, sarebbero per noi inestimabili. Potremmo così valutare serenamente il nostro livello demografico, il nostro bisogno di manodopera e «il punto di saturazione invalicabile». E gli immigrati? Poco male: «L’unica privazione di questo status è il diritto di voto». E che sarà mai? Anzi, ciò li metterà al riparo dalla tentazione di «condizionare e controllare un paese creando il loro partito (islamico o altro)».
E ci mancherebbe altro, professor Sartori: questa gentaccia, che diamine, deve venir qui, accettare le nostre condizioni e magari i nostri salari da fame (meglio se “al nero”) e non avanzar richieste, non pretendere diritti. Deve contribuire alla nostra crescita, al nostro sviluppo, ma alle condizioni che le dettiamo noi e accettando per tutta la vita la spada di Damocle della cacciata e del rientro al suo paese. E i ragazzi figli d’immigrati, ma nati qui? Lo stesso: non importa nulla se hanno vissuto, studiato e lavorato qui sedici o diciotto o vent’anni; sgarrino, e noi li rispediamo in un paese che non è il loro, che magari non hanno mai visto e del quale ignorano anche la lingua, ma che è comunque quello dei loro genitori; e che magari manco li vuole.
E i figli di matrimoni misti? Quanti quarti di cittadinanza occorrono per essere cittadini dalla nascita? In altri termini, sventolando lo spauracchio d’una refrattarietà degli immigrati a divenir buoni cittadini secondo i «valori etico-politici dell’Occidente» (cioè in pratica negando che l’integrazione e la vita anche politica in comune con noi possano mai condurre a nuove sintesi socioculturali, ma affermando dogmaticamente che resteranno sempre gli stessi, anzi che peggioreranno), il professor Sartori ci propone un’autodifesa dell’Occidente consistente nel congelamento delle dinamiche storiche e sociali e nella creazione permanente di un ceto di iloti o di meteci o di perieci che accettino di lavorare senza acquisire diritti e senza prospettive di poter contribuire allo sviluppo di una società che li sfrutta, li controlla ma non li accoglie; che anzi è convinta che un loro eventuale contributo civile sarebbe solo inquinante (la temuta “islamizzazione”, per esempio).
Ci propone una sorta di ritorno al diritto non già “territoriale”, bensì “personale”, con tutte le conseguenze del caso: prima fra tutti la permanente disparità giuridica. Se un cittadino commetterà un delitto ai danni di un residente, sarà punito secondo le leggi vigenti: ma non ci sarà reciprocità, in quanto il residente sarà invece punito con l’espulsione. Che naturalmente si estenderà quanto meno ai suoi figli minorenni, i quali magari intanto avranno imparato la nostra lingua, si saranno fatti quattro o cinque anni nelle nostre scuole e avranno qui i loro amici, i loro affetti, insomma il loro vero paese. E se il residente espulso fosse sposato con una residente di origine diversa, come la metteremmo con i figli minorenni?
Pur facendo di mestiere il medievista, non mi sento né tranquillizzato né soddisfatto dinanzi a questo nuovo “Medioevo del diritto” prospettato dal professor Sartori con la sua riscoperta della permanente ed ereditaria condicio servilis. Mi sembra inoltre ch’egli si dimostri molto più antioccidentalista di un incallito teologo salafita, in quanto si dice convinto che tra gli immigrati, oggi, «i valori etico-politici dell’Occidente sono più che mai rifiutati». Il che significa che in fondo egli diffida della bontà e della forza di quei valori e li giudica inadatti a venir accettati. Cosa che proprio non si direbbe, a giudicar dal fatto che le cellule di islamisti irriducibili sono sempre più minoritarie a fronte dei milioni di brave persone che vivono tra noi e lavorano con noi, sforzandosi di mantener intatte le loro radici ma al tempo stesso di coniugarle con i valori della convivenza.
In attesa che il tempo faccia il resto e crei nuove sintesi, superando le secche del “multiculturalismo” e dell’“assimilazionismo”: com’è in realtà sempre avvenuto, dovunque si siano verificate ondate migratorie di abbastanza vecchia data (pensate agli italiani negli Stati Uniti, dall’inizio del secolo scorso in poi…).
da www.europaquotidiano.it