E Napolitano: è un esempio da imitare. Il presidente della Provincia ha ideato l´iniziativa. “Grillo? Parla alla pancia, non al cervello”. Attestato ai 4.536 bambini nati negli ultimi dieci anni Con il Tricolore e la Costituzione
PESARO – Piange come un disperato, Marhio, nato 3 mesi fa. Aspetta la poppata, non gliene importa nulla di diventare «cittadino onorario» di questa città sul mare. Ma sarà invitato anche lui, assieme al papà e alla mamma romeni, alla festa che si terrà presto, forse al palazzo dello sport. A 4.536 bambine e bambini nati nel pesarese negli ultimi dieci anni verranno consegnati un «attestato» che dichiara la loro cittadinanza italiana, una bandiera, una copia della Costituzione e anche una maglietta della Nazionale di calcio. L´attestato non sarà purtroppo un documento ufficiale, perché quel «ius soli» che negli Stati Uniti e in Francia dà diritto di cittadinanza a chi viene alla luce in quelle terre, in Italia viene annullato dallo «ius sanguinis». Ma è un passo avanti, è la firma di un impegno. «Quando ho proposto questa iniziativa – dice Matteo Ricci, 37 anni, presidente della Provincia di Pesaro – ho utilizzato le stesse parole del Presidente: “Chi nasce in Italia è italiano”. E dal Quirinale adesso è arrivata una risposta che ci spinge ad andare avanti». «La vostra – questo il messaggio di Giorgio Napolitano – è una iniziativa di grande valore simbolico. C´è da augurarsi che questo esempio possa essere seguito anche da altre realtà territoriali».
Certe idee, come le piante, nascono solo se il terreno è quello giusto. «Mio nonno Luciano – racconta il presidente della Provincia – ha lavorato per otto anni nelle miniere di carbone del Belgio. Quasi tutta la periferia di Pesaro è stata costruita da emigranti partiti subito dopo la guerra per lavorare in Svizzera e in Germania e poi tornati a casa quando qui si è avviata l´industria del mobile. Operai che sabato e domenica diventavano muratori e pagavano pietre e cemento con i soldi guadagnati negli anni dell´emigrazione. Come i romeni, gli albanesi, i marocchini di oggi». Ci sono 34.700 residenti stranieri su 360.000 abitanti, in questa provincia. Impegnati alla Scavolini e alla Berloni e anche nell´edilizia. «Ma quest´ ultima è quasi ferma – dice Ricci – e tanti albanesi e romeni sono tornati a costruire case nella loro terra. Non è un caso che il Presidente abbia pronunciato quella frase così netta mentre stava aprendo la strada al nuovo governo. Dare la cittadinanza a chi nasce in Italia è una questione di civiltà – e con la nostra iniziativa faremo pressioni sul Parlamento – ma anche un segnale contro la crisi. Da questa si può uscire con più egoismo e solitudine oppure con più giustizia e solidarietà. Bisogna puntare sui valori, non solo sui numeri».
Si aspetta il ministro Andrea Riccardi, al grande incontro con i nuovi piccoli italiani. «L´altro giorno siamo stati assieme ai senegalesi, per un abbraccio dopo la strage di Firenze. Alla fine una bimba senegalese, avrà avuto cinque o sei anni, ha cantato “Fratelli d´Italia”, e conosceva tutte le parole. Meglio dei miei due figli, Camilla e Giovanni. Come puoi dire, a quella bambina, che non è italiana? Come può, un Beppe Grillo, negare il “ius soli” a un milione di bimbi che sono nati nel nostro Paese? E´ solo un populista che parla alla pancia degli italiani, non al cervello e al cuore».
Marhio non piange più, nella sua casa di via Agostini, vicino al mare. Di fronte a lui abita Jurghen – nome tedesco perché suo papà Ardian, partito dall´Albania, ha lavorato anche in Germania – che è nato a Pesaro, frequenta la quinta elementare e dice subito che l´idea della cittadinanza onoraria gli piace molto. «E´ una cosa giusta – dice pesando le parole come se scrivesse un tema a scuola – anche perché io sono italiano. E anche albanese. Ho fatto l´asilo, la materna, il prossimo anno comincerò le medie. Con i miei compagni parlo anche in dialetto, e nessuno mi ha mai detto “albanese” come fosse un insulto». Il papà e la mamma Valbona, operaio e aiuto cuoca, raccontano che Jurghen «faceva ridere» i nonni, quando d´estate tornava a Tirana. «Provava a parlare albanese e nessuno capiva». «Ma adesso sono più bravo. Ogni tanto guardo la televisione dell´Albania, e anche i dvd con i cartoni animati, così imparo nuove parole. E poi sono ancora giovane, imparo presto. Quando vado dai nonni, dopo un paio di settimane riesco a parlare quasi come gli altri, e non li faccio più ridere». Una bandierina con l´aquila nera su fondo rosso in cucina, una grappa albanese da offrire agli ospiti. «Ma noi in casa parliamo italiano – dicono Valbona e Ardian – perché questo è il nostro Paese. Nostra figlia più grande sta facendo l´università a Urbino». La cittadinanza per i figli dovrebbe essere «una cosa naturale». «Vorremmo che i nostri figli fossero considerati una ricchezza, non un problema. Andando a scuola con loro si potrebbero imparare tante lingue, che al giorno d´oggi sono così utili per trovare lavoro». Solo qualche volta, nell´appartamento di via Agostini, si ascoltano parole arrivate dall´altra parte dell´Adriatico. «Quando mi arrabbio con Jurghen, lo sgrido in albanese. “Riurtè, mjaft”, stai fermo, basta. E lui ride, fa finta di non capire».
da la Repubblica 26.1.12