Silvius Magnago era forse un centralista servo di «Roma ladrona»? Non diciamo fesserie: cominciò a battagliare in nome dell’autonomia quando Umberto Bossi aveva le braghette corte e sognava, parole sue, di diventare un cantante da balera. Eppure il «Mosè dei sudtirolesi» sulle tasse la pensava esattamente al contrario di certi leghisti che, in polemica con Monti, si avventurano a difendere gli evasori.
Un esempio? Il vicepresidente della Provincia di Padova e aspirante segretario provinciale del Carroccio Roberto Marcato, che in un dibattito televisivo su Telenuovo è arrivato a dire: «Secondo me in Veneto evadiamo poco le tasse, invito ad evadere di più». Un’incitazione a delinquere in seguito appesantita dalle parole del sindaco di Cittadella e deputato Massimo Bitonci che si è fatto vanto di evadere da anni il canone Rai. Il pretesto: la guerra a Roma.
«L’invito alla rivolta fiscale non l’avrei fatto mai», spiegò Magnago al Corriere dopo una sparata bossiana sul tema, «La mia patria è l’Austria, ma il mio Stato è l’Italia. Io sono un cittadino italiano. È una bella differenza. Anche un milanese può amare la sua patria e odiare il suo Stato. Ci sono però dei doveri che tutti i cittadini hanno. E pagare le tasse è uno di questi. Indipendentemente dal fatto che io sia o meno d’accordo con le istituzioni».
Anche se lo Stato è così corrotto? «Sì, anche se lo Stato è così corrotto. Noi siamo forse l’unico partito di governo, in Italia, che non ha intascato una lira sporca. Ma nonostante il disagio di vivere in uno Stato così corrotto insisto: le tasse vanno pagate. In ogni caso. Perché se lo Stato va in malora andiamo in malora tutti». Era il novembre 1993: due mesi dopo lo stesso Senatur, investito dal ciclone di Mani Pulite, avrebbe ammesso il finanziamento illegale alla Lega da parte di Enimont per cui sarebbe stato condannato in primo grado, in appello e in Cassazione.
Quanto al carico eccessivo delle tasse, incontestabile, vale la pena di ricordare quanto denunciava pochi mesi fa Giuseppe Bortolussi, l’anima della Cgia di Mestre, nel libro Tassati e mazziati. E cioè che lo Stato già allora, prima del «governo infame» di Monti insultato da Bossi, prelevava dalle tasche degli italiani, tra tasse dirette e indirette, «il 51% del nostro reddito lordo, più della metà di quello che ogni anno guadagniamo!».
Peggio, scriveva Bortolussi: nel 2000, dopo cinque anni di centro-sinistra, il giorno della liberazione dalle tasse arrivava il 1° giugno, nel 2010 cinque giorni dopo: il 6 giugno. Anzi, calcolando i debiti per la spesa pubblica accumulati rinviando la resa dei conti, il dato era ancora più folle: nel 2000 il «tax freedom day» arrivava il 5 giugno, nel 2010 il 25, cioè venti giorni dopo. E in otto di quei dieci anni di impennata delle tasse dove stava la Lega Nord? A Roma. Al governo.
dal Corriere della Sera del 25 gennaio 2012