Le storie di chi si impegna ma poi è costretto a mollare o a lasciare l’Italia dimostrano che il problema è altrove ed è strutturale. Purtroppo «sfigati» si diventa dopo la laurea
De sfigatibus. Laura si è laureata in ingegneria idraulica a 22 anni, quasi 23,un genio delle turbine e dei calcoli, ha poi vinto il dottorato, a Palermo,“ da sola”, senza calci, ha trovato pure il tempo di sposarsi e la domenica va a pranzo dai suoi.«Mamma, straccio le statistiche, discuto la tesi next year,un anno a Baltimora, torno, concorso da ricercatore e zac! Bambino entro i 29, scommettiamo? ». Scommessa persa. «Dottoressa, con questi chiari di luna io non posso assicurarle nulla al suo rientro dagli Usa; sì c’è il concorso ma…».Ma un collega milanese del prof c’ha il figlio e, si sa, i figli so’ figli…» e Laura piange: parte e rimane fuori? E Mauri? Rimane? A fare che? Pensa a Norman: due anni fa si è lanciato da una finestra del pensionato universitario. Il suo prof gli aveva detto le stesse cose che lei ha sentito ieri. Certo, «era un depresso», dicono, ma… Come si fa a non esserlo? Giulietta è la sorella di Laura, solo di un anno minore, sta ancora all’Università, ad architettura. «Mica sono scema. Un anno di Erasmus a Berlino e, da allora, sei mesi in giro per studi a lavorare quasi gratis, Koolhas, Gerhy, Tadao Ando, e sei mesi in Italia a dare qualche esame». Sa già che lavorerà dopo la laurea. Non in Italia, per carità, qua gli architetti di un certo livello non battono chiodo. Sposarsi? Figli? E come? All’estero, forse, non qui… Poi c’è Lucia, la più piccola, al liceo. Guarda le sorelle e disegna punti interrogativi. «Io volevo fare l’alberghiero e mi avete guardata come un’idiota. Biologia… Ma tanto farò la cuoca…». Già lavora nei weekend in una trattoria. Certo, se le dessero un premio per laurearsi in tempo, anche in crediti di tasse, studierebbe soltanto. È il 20 luglio del ’92, Mila ha 23 anni, laureata da 7 giorni. Massimo dei voti e menzione. Strage di via D’Amelio. «Devi andar via». «No, voglio fare la storica dell’architettura, a Palermo». Per sette anni tenta il dottorato, per sette anni segata. Infine tenta in altre cinque città. Vince dappertutto. Sceglie Roma. Va via dunque, ma mollerà la carriera accademica, per sfinimento e fame, nel 2007. Certo, poi c’è la viziata, la pigra, la cretina… La mamma mammona che non ti sprona. Troppe variabili; penso che si sbagli campione statistico d’indagine. Tre storie e tre sfighe. Essere donne, essere giovani, e laureate, essere in Italia. Con tutta la buona volontà, come farcela con questi adulti? E ti danno pure le colpe. Quello è il campione d’indagine. Con questo sistema? Altro campione. Il dito, la luna… Per avere le giuste risposte, le domande bisognerebbe farle alle giuste persone. Come i giudizi. Meglio sospenderli se prima non si chiarisce il contorno. Martone, risponda lei alla sfiga, visto che è esperto. Un suggerimento da prof: gratifiche. Mettete a punto delle gratifiche adeguate e di laureati a ventiquattro anni ne vedrete molti, ma molti di più. Rimane comunque un dito. Non la luna.
da l’Unità
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“Rivalutiamo i secchioni, ma dopo facciamoli lavorare”, di Fabio Luppino
Da bamboccioni a precari il passo è breve. Gli alibi del conflitto padri-figli allontana dal senso di responsabilità. Anche se il sacrificio è annichilito dal resto che non funziona
Mi sono laureato a 24 Anni appena compiuti e ancora mi brucia. Ho perso nove mesi per rifare un capitolo della tesi solo per non contraddire il relatore. Il viceministro ha utilizzato un termine slang, ma tanto per farsi capire. La provocazione è giusta in un Paese eternamente fermo, in cui si contrappongono i padri ai figli fornendo alibi a questi ultimi, che amabilmente passano dal ruolo di bamboccioni a quello di precari sempre giustificati, con le dovute eccezioni s’intende. Tralasciamo anche la storia personale di chi l’ha lanciata la provocazione, altrimenti finiamola qui: se non può fare il viceministro qualcuno lo dica forte ora o taccia per sempre. I figli di stanno dappertutto, a destra come a sinistra, con le raccomandazioni lievi e quelle forti, quando basta il cognome o anche solo il nome… Dire sfigati, dunque, è dire mollaccioni eternamente figli, per sempre irresponsabili, anche dopo i 28 anni. In parte è così, in parte non lo è. Io sono uno sfigato, per censo, nel novero di quelli che ai tempi stavano in una famiglia che non poteva permetterselo un figlio all’università. O, meglio. Di quelle in cui i risparmi, i pochi risparmi stavano là per quello,ma nonc’era tempo per i sofismi culturali, del lo devi maturare tu, dell’approfondisci, ma fai anche le tue esperienze che hai tempo, del sì studia ma ti devi divertire, quando ritorna la bella età… Studiare per laurearsi, come riscatto sociale, come passaggio da un mondo ad un altro e forse venticinque anni fa aveva un senso dirlo. Studiare con senso di responsabilità, perché è quella l’occasione che non torna più nella vita, per non avere rimpianti dopo, per non dirsi se l’avessi fatto meglio. Anche per mettersi alla prova, perché è giusto imparare a non rimandare, che poi è per sempre. La facoltà di Scienze Politiche alla Sapienza aveva ai tempi aule di mille posti e passa. Il primo anno bisognava stare seduti in terra, avvolti dal fumo e il professore lo sentivi comunque se lo volevi sentire:da Monticone, Martino, Marzano, Scoppola, Amato, De Felice presidente di commissione di laurea. Non era ancora partita la corsa verso le università private. Erano i tempi in cui si dava per scontato il sapere e tu eri conscio che non potevi dare per scontato nulla e te ne dovevi appropriare. In corso, alla fine, eravamo cinquanta sì e no, e ci conoscevamo tutti, sfigati e figli dì. Studiare quando si deve significa anche lottare per qualcosa che abbia senso. E lottare significa anche, se si ha un’ambizione, lavorare per questo, fare sacrifici, anche rinunce personali. Allora come ora ti dicevano che eri un secchione. Li vedevi sfilare gli altri quando partivano per i viaggi al mare o in montagna, fare le cinque del mattino che tanto poi ho tutto il giorno per dormire. Studiare aveva un senso ieri e ce l’ha anche oggi. Quel che manca è il senso del dopo. Su questo Martone, ma soprattutto Monti e i ministri più di peso dovrebbero interrogarsi profondamente un po’ di più. Visto che non lo hanno fatto fino ad ora, tanto meno chi li ha preceduti nell’ultimo decennio. La vera sfiga è questa.
da L’Unità