Il governo Monti sembra intenzionato ad entrare nella «nebulosa» del valore legale dei titoli di studio universitari. Prima che gli alfieri dell’abolizione del valore legale si eccitino eccessivamente, cantando vittoria, è bene fissare alcuni punti fermi sulla questione. Cosa non facile perché si tratta proprio di una «nebulosa», come sottolineato dal massimo studioso di diritto amministrativo del nostro paese, il giudice costituzionale Sabino Cassese, alla fine di un suo illuminante saggio dedicato a questo tema, pubblicato dieci anni fa (Annali di storia delle università italiane 6/2002).
Infatti, le soluzioni di cui il governo sta discutendo, stando ai resoconti di stampa, mostrano come la questione sia intricata e come non si tratti di abolire alcunché ma di approvare norme regolative. Il governo pare stia discutendo di almeno tre questioni: l’eliminazione del voto di laurea come criterio di valutazione ai concorsi pubblici; l’eliminazione del tipo di laurea (basterebbe, tranne che per i ruoli tecnici, un qualsiasi tipo di diploma di laurea); un “apprezzamento” della qualità delle università che hanno rilasciato il titolo.
I primi due elementi non devono abolire alcuna legge dello stato italiano, perché non esiste alcuna legge che imponga l’uso del voto di laurea nei concorsi e nemmeno del tipo di laurea per l’ammissione ai concorsi. Incredibile ma è così. In realtà questi due strumenti non sono affatto regolati dalla legge bensì sono utilizzati, nella propria autonomia, dalle singole amministrazioni al fine di rendersi la vita più facile.
Ponendo vincoli ai tipi di laurea necessari per partecipare a un concorso le amministrazioni riducono il numero dei partecipanti da gestire; adoperando il voto di laurea per assegnare dei punteggi ai fini della valutazione dei candidati le amministrazioni pensano di “oggettivare” il giudizio sui candidati, limitando le possibilità di ricorso giurisdizionale.
Quindi, se il governo decidesse di intervenire su questi due questioni, opererebbe un intervento di regolazione di ciò che era lasciato alla libera autonomia delle amministrazioni. E sarebbe un intervento interessante (anche se nella testa dei valutatori il voto di laurea continuerebbe a contare) che però non abolisce alcunché se non le prassi sedimentate delle amministrazioni pubbliche.
La terza questione, rimanda alla possibilità che un ranking delle università possa far pesare di più un titolo di studio rispetto ad un altro in un concorso. Un’ipotesi davvero poco percorribile. Perché sarebbe incostituzionale (lederebbe l’uguaglianza dei cittadini: ad un concorso pubblico deve contare quello che un candidato sa, non dove si è laureato, tenuto conto che, comunque, se uno si è laureato nella migliore università dovrebbe vincere no?). E perché sarebbe insensata: non si può stabilire l’eccellenza per legge.
Senza contare poi che nel nostro paese, a differenza di altri, le eccellenze sono distribuite non tra istituzioni universitarie ma tra aree disciplinari. Per cui un’università può essere eccellente in economia e giurisprudenza ma mediocre in lettere o architettura.
I ranking servono per indirizzare ed informare in modo trasparente le famiglie e i potenziali iscritti rispetto alla qualità della didattica offerta. Quindi, se fossi in chi sta lavorando nel governo su questo tema ci andrei con i piedi di piombo ed andrei a guardare come funzionano gli altri sistemi universitari. Perché, mi duole dirlo a tutti coloro i quali immaginano l’abolizione del titolo di studio e la competizione pura tra università come una panacea di tutti i mali, non esiste nessun paese al mondo in cui i titoli di studio non abbiano una qualche forma di certificazione (per via normativa o mediante accreditamento); e non esiste alcun paese al mondo in cui sia formalizzata, a livello di ammissione ai concorsi pubblici, una differenza sostanziale tra le università che hanno rilasciato il titolo di studio.
Nei paesi in cui esiste un ranking tra le università è consentito ad esse di scegliersi gli studenti: ciò ha come effetto che gli studenti migliori vadano nelle università migliori e, quindi, questi studenti, una volta laureati, hanno molte più possibilità di altri laureati di accedere a professioni migliori, nel pubblico e nel privato. Ma tutto questo processo non è affatto regolato dalla legge. Ci mancherebbe davvero che si arrivasse alla legalizzazione del valore differenziato del titolo di studio!
La questione, come si può capire, è davvero complessa e confusa e, come ci ricorda sempre Cassese, «non merita filippiche, ma analisi distaccate, che non partano da furori ideologici o da modelli ideali». Pertanto, c’è da augurarsi che il governo proceda in modo accorto e lungimirante su questo tema, senza farsi tirare dalla giacchetta dai troppi Soloni (ahimè, provenienti proprio dal mondo accademico) che propongono soluzioni semplicistiche basate, appunto, su furori ideologici o su modelli ideali che non esistono in nessuna parte del mondo.
Da www.europaquotidiano.it