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"Istruzione, non è questioni di titoli ma di qualità", di Benedetto Vertecchi

L’abolizione del valore legale del titolo di studio è diventato un tormentone, un argomento di cui si torna a parlare con periodica puntualità. Proprio di questo, a quanto pare, si parlerà nel consiglio dei ministri di venerdì prossimo. Nell’attesa di saperne di più, più in generale, di conoscere quali siano le intenzioni del governo riguardo il rinnovamento del sistema scolastico e universitario, ci sembra importante ricordare alcuni punti fermi da cui qualunque riflessione, nonché riforma, dovrebbe partire.
È trascorso circa mezzo secolo da quando un gruppo di studiosi, attenti alle trasformazioni che si stavano verificando in campo educativo, promosse la prima grande rilevazione comparativa sui risultati che gli allievi conseguivano nei vari sistemi scolastici. Dal punto di vista dei promotori, quelle rilevazioni dovevano offrire elementi per una migliore comprensione del modo in cui i sistemi scolastici si mostravano in grado di far fronte alle esigenze che stavano emergendo per effetto delle trasformazioni sociali, culturali ed economiche. Dalle analisi comparative sarebbero quindi dovute derivare indicazioni utili per approfondire nei singoli paesi i problemi dello sviluppo educativo, prendendo atto dei punti di forza e, con attenzione anche maggiore, di quelli di debolezza. Alla base delle rilevazioni comparative c’era l’intento di acquisire elementi di conoscenza utili per migliorare la qualità delle decisioni da assumere per lo sviluppo dei sistemi educativi. Il confronto sui problemi dell’istruzione avrebbe potuto superare i condizionamenti contingenti legati al prevalere di schemi precostituiti alla base del senso comune, perseguendo caratteri di razionalità. Ma ciò avrebbe comportato un impegno per lo sviluppo della ricerca educativa che in Italia non c’è stato. C’è stato invece, in un primo tempo, un atteggiamento scettico e sufficiente, al quale hanno concorso ideologie antiscientifiche variamente orientate, e al quale è seguita, in anni più recenti, un’accettazione subalterna. In mancanza di linee interpretative che fossero espressione di una cultura educativa attenta al presentarsi delle esigenze e al mutare dei fenomeni, hanno finito con l’imporsi modi di argomentare presi a prestito da altri settori dell’attività sociale (per esempio, dall’organizzazione aziendale). Il fatto è che, mentre l’educazione è un’attività che si attua nel lungo periodo, le attività che hanno fornito i prestiti seguono generalmente una logica di breve periodo. Nell’educazione, ciò che avviene nell’infanzia e nell’adolescenza è solo una premessa rispetto a ciò che avverrà nel seguito della vita. Inoltre, l’educazione non è solo l’effetto d’interventi espliciti (come quelli che si effettuano nelle scuole), ma ad essa concorrono in misura anche maggiore variabili che traggono la loro origine nei contesti di esperienza di bambini e ragazzi. Il fatto che autorevoli istituzioni internazionali (come l’Ocse) abbiano centrato la loro attenzione sui livelli di apprendimento ha favorito, in assenza di una cultura valutativa consapevole, interpretazioni schiacciate su un asse comparativo di tipo sincronico. In altre parole, si confronta quanto appare in un momento determinato, trascurando in che modo i fenomeni si siano determinati e quale potrà essere il loro seguito. Questa mancanza di spessore valutativo ha dominato le politiche scolastiche della Destra, affermando criteri che non hanno dato prova di particolare validità neanche nei settori in cui sono stati originariamente formulati. Parlare di merito, d’impegno individuale, di efficienza e via discorrendo (e, soprattutto, parlarne in termini comparativi) non serve a qualificare i risultati dell’educazione, mentre servirebbe domandarsi in che modo orientare diversamente le scelte educative, quale profilo culturale non effimero si vorrebbe che conseguisse la generalità degli allievi, che cosa resta e che cosa decade di quanto si acquisisce negli anni dell’educazione sequenziale, quali sono le condizioni per continuare ad apprendere in una fase storica che si distingue per la rapidità con la quale nuovi apporti modificano il quadro della conoscenza, come usare al meglio, conservando autonomia di pensiero e di azione, le opportunità offerte dallo sviluppo della tecnologia. Uscire dalle angustie in cui versa il sistema educativo, a tutti i livelli, vuol dire, per cominciare, respingere il ciarpame di senso comune che consiste nell’affermare, come se disponessero di assoluta evidenza, concetti e modi di operare che invece sono per lo più frutto di ideologia o derivazione di interessi in sé estranei all’educazione. Non basta un po’ di paccottiglia strumentale per migliorare la qualità dell’offerta d’istruzione, come non basta adattare concetti da libero mercato alla valutazione della qualità dei risultati che si ottengono nel sistema educativo. Meglio sarebbe preoccuparsi di assicurare alle scuole e agli insegnanti le condizioni per svolgere correttamente il loro lavoro, e insieme preoccuparsi di promuovere la crescita di conoscenza necessaria a compiere un reale salto di qualità nell’interpretazione della realtà educativa.

da L’Unità del 23 gennaio 2012

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Esecutivo diviso sull’abolizione del valore legale della laurea. Contrari il ministro Cancellieri e i sindacati dei docenti”, di Flavia Amabile

ROMA Se dipendesse solo da lui, per Mario Monti il valore legale del titolo di studio sarebbe già superato. Non tutti all’interno del governo però sono d’accordo e ancora una volta un esecutivo si divide su una questione che da anni è sul tavolo dei ministri dell’Istruzione. Dove però è rimasta, almeno finora. Durante le oltre otto ore di consiglio dei ministri di venerdì scorso se n’è parlato di nuovo quando si è deciso di cambiare le norme sull’accesso dei giovani all’esercizio delle professioni e prevedere la possibilità di svolgere i primi sei mesi di tirocinio già durante la laurea. Monti sarebbe andato oltre, avrebbe rotto gli indugi e agito subito. Il ministro dell’Interno Anna Maria Cancellieri, invece, si è opposta, e il ministro della Giustizia Paola Severino ha chiesto gradualità. Ne è nato un lungo dibattito che ha impedito di arrivare ad una soluzione ma ormai l’argomento è fra quelli in discussione e se ne parlerà ancora. Forse un provvedimento potrebbe arrivare già nel prossimo consiglio dei ministri se la fazione pro-abolizione dovesse spuntarla visto che ha fans trasversali e diffusi dal Pdl, alla Lega, al Pd, la Confindustria, la Crui dei rettori italiani, e persino tra i grillini come risulta a ripercorrere indietro il successo del tema fino all’ultima indagine conoscitiva in Senato avviata la scorsa primavera.
La novità a cui si sta lavorando in queste ore prevede un intervento nei criteri di selezione utilizzati nei concorsi pubblici. Dovrebbe cadere il vincolo per il tipo di laurea, fatta eccezione per i settori in cui siano necessarie competenze tecniche specifiche. Il laureato in Lettere potrebbe diventare dirigente di un ente pubblico, purché dimostri di essere in grado di superare brillantemente il concorso, e quindi però dovrebbero anche esserci concorsi in futuro, visto che da tempo non ce n’è traccia. Nemmeno il voto di laurea dovrebbe più avere un peso nella selezione ma diventerebbe importante l’ateneo dove ci si è laureati. E, quindi, un titolo conquistato anche a pieni voti nell’università X non avrebbe valore mentre lo avrebbe un titolo conquistato anche con una valutazione non brillante in un’altra università che abbia requisiti particolari che molto probabilmente verranno definiti sulla base dei parametri individuati dall’Anvur, l’Agenzia per la valutazione a cui il governo Monti proprio venerdì scorso ha attribuito i compiti di certificazione della qualità dei corsi e delle sedi universitarie, una sorta di bollino per far capire dove si studia meglio.
Contrari i sindacati dei docenti, dall’Andu alla Flc-Cgil, la Cisl, la Uil, ma anche la Rete 29 Aprile e le associazioni di base. Consideriamo il mantenimento del valore legale del titolo di studio un dato centrale del sistema universitario italiano e paventiamo che la sua abolizione possa incrementare le diseguaglianze sociali ed economiche».
Scandalizzato il Pdci. Riccardo Messina: «Una norma classista, discriminatoria e da un forte retrogusto leghista. Se questo principio venisse approvato, ci sarebbe milioni di studenti tagliati fuori dalla possibilità di diventare classe dirigente di questo paese solo perché senza risorse economiche o perché nati in zone disagiate».

La Stampa 23.1.12

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“I dubbi dei rettori sul «federalismo» delle lauree”, di Lorenzo Salvia
ROMA — «Una cosa è dare il giusto valore alle cose, un’altra eliminarlo del tutto». Enrico Decleva, rettore della Statale di Milano, ha qualche dubbio sugli interventi allo studio del governo per le università. Le ipotesi sono due. La prima è l’abolizione del valore legale del titolo di studio. Se ne parla da anni, Luigi Einaudi ci scrisse un libro, ma cosa vuol dire davvero?
La laurea presa a Milano e quella presa Roma non avrebbero più lo stesso valore per legge ma sarebbe la reputazione delle due università a fare la differenza. Il piano «B» va nella stessa direzione ma in modo soft perché eliminerebbe il voto di laurea dal calcolo del punteggio nei concorsi pubblici. Il ragionamento di fondo è lo stesso: ci sono università buone e altre meno buone, un 110 non ha lo stesso valore se viene preso in un ateneo di tradizione o in una delle tanti sedi distaccate germogliate negli ultimi anni. E allora, pensa il governo, meglio eliminare quella eguaglianza prevista oggi per legge nel settore pubblico. Anche il rettore della Sapienza di Roma, Luigi Frati, ha molti dubbi: «In alcune aree, come per i medici e gli architetti, è impossibile perché il valore legale è previsto da norme europee. Ma poi, scusate, non è che così diamo mani libere alla politica che ha l’antico vizietto di mettere le mani sulle assunzioni nel pubblico?». Ma non è sbagliato che chi si laurea in una pessima università, dove prendono tutti la lode, sia alla pari di chi ha faticato in un buon ateneo e si è dovuto accontentare di un 100? «Sì, ma allora è meglio stringere i rapporti con il mondo del lavoro. Noi alla Sapienza abbiamo un accordo per far fare in azienda una parte della tesi. E l’imprenditore uno studente mediocre non lo vuole mica». Il suo collega milanese Decleva, però, vede una prospettiva: «Non buttiamo via il bambino con l’acqua sporca o almeno prima mettiamoci un po’ di detergente». Il detergente? «Se eliminiamo il valore legale dobbiamo avere un altro strumento per capire quali sono i corsi buoni e quelli meno buoni. Per questo un anno fa è nata l’Anvur ma credo abbia ancora molta strada da fare». Quanto sia lunga lo chiediamo a Stefano Fantoni che dell’Anvur (Agenzia per la valutazione del sistema universitario) è il presidente: «Dal prossimo anno accademico saremo in grado di fare una prima valutazione dei singoli corsi. Ogni corso dovrà essere accreditato e non diremo un sì o un no secco ma esprimeremo un giudizio». Basterà questo per sostituire il valore legale? «Non lo so, la decisione spetta alla politica. Per arrivare a una valutazione completa dei singoli corsi e delle singole università avremo bisogno di più tempo». Si può fare, allora?
Salvatore Settis è stato per anni direttore della Normale di Pisa, uno dei simboli dell’eccellenza italiana, ma è proprio alla base della piramide che rivolge il suo sguardo: «In linea di principio sarebbe una buona cosa ma c’è il rischio di concentrare le risorse sulle università migliori emarginando tutte la altre. E questo vorrebbe dire introdurre un meccanismo di diseguaglianza tra i cittadini che si possono permettere quelle università e tutti gli altri. Ci vorrebbe un piano straordinario di borse di studio. Ma con questa crisi sarà possibile?».

dal Corriere della Sera 23.1.12