Tra le patologie che si diffondono in questo periodo di crisi, vi è la singolare attitudine di una falsa sinistra, in realtà ultraliberista, a farsi paladina delle peggiori ricette della destra neothatcheriana e reaganiana, sepolte da oltre un ventennio perché drammaticamente fallite.
Proprio di questo fallimento, peraltro, stiamo oggi vivendo la fase più acuta e le conseguenze più nefaste. Il conato ideologico di Alessandro De Nicola su Repubblica di ieri, in forma di peana delle privatizzazioni (anzi di intimazione a vendere tutte le più importanti imprese di proprietà pubblica), appartiene a pieno titolo a questa patologia.
Nessuna persona dotata di raziocinio e in buona fede può in questi giorni proporre una campagna di privatizzazioni forzate di una parte così significativa dell’apparato finanziario e industriale strategico del Paese. L’Italia sta con fatica riconquistando un peso e un ruolo in Europa e nel mondo, e l’economia italiana ha bisogno di grandi imprese nazionali capaci di stare sui grandi scenari globali, capaci di trainare politiche industriali, per l’energia, le infrastrutture, l’innovazione tecnologica. Eni, Finmeccanica, Fintecna costituiscono punti fermi su cui appoggiare una strategia di rilancio industriale del Paese, sono tra le aziende che sviluppano la maggior intensità di ricerca, assorbono grandi numeri di capitale umano ad alta qualificazione, partecipano ai grandi programmi di ricerca e di infrastrutture a livello europeo ed internazionale. Costituiscono in sintesi uno strumento essenziale per la capacità negoziale e di crescita del Paese a livello globale.
Mettere oggi in stallo, e dunque in crisi prospettive e governance, queste imprese, semplicemente per fare cassa, costituisce un rischio sistemico inaccettabile. Che poi le privatizzazioni generino in sé efficienza è tutto da dimostrare: esistono aziende pubbliche efficienti e ben governate ed esistono aziende private inefficienti e viceversa. L’idea che la tipologia della proprietà determini in automatico la qualità dell’impresa è infondata, specie in mercati complessi dove si giocano interessi strategici nazionali. Fortunatamente il presidente Monti sa ben distinguere tra liberalizzazioni e concorrenza da un lato e privatizzazioni e ideologia mercatista dall’altro. Oggi la reputazione, la credibilità del Paese (finanche lo spread!) dipendono dalla dimostrazione della nostra capacità di crescere, di generare e distribuire ricchezza. In questo quadro le politiche economiche e industriali debbono dare quadri stabili di riferimento, puntando sulle grandi imprese nazionali come fattore di accelerazione della crescita e dell’innovazione anche del nostro sistema di piccole e medie imprese.
La privatizzazione forzata del sistema delle utilities frenerebbe invece la crescita costante e graduale di sistemi locali di imprese nel campo delle tecnologie e dei servizi energetico-ambientali e metterebbe in ginocchio la finanza locale, già fortemente colpita, mettendo in crisi il livello dei servizi alle famiglie e in definitiva la coesione sociale. Sulla privatizzazione selvaggia e senza regole dei sistemi di trasporto, il disastro del caso inglese si erge di fronte a noi, monito imperituro.
Quanto poi all’idea che tutto questo sistema di imprese in mano privata generi sviluppo ed efficienza, e addirittura aumenti di stipendi dei dipendenti (sic!), attraverso la salvifica virtù della mano invisibile del mercato è palesemente senza fondamento. Del resto deve trattarsi della medesima mano che in tutti questi anni, visti gli effetti nefasti e distorsivi, deve essere rimasta in tasca, presumibilmente dedita a pratiche onanistiche, con evidenti effetti di cecità ideologica in alcuni economisti liberisti.
Oggi abbiamo bisogno di sostenere la ricerca, lo sviluppo di economia sostenibile, l’innovazione, l’internazionalizzazione. Strutture come Cassa Depositi e Prestiti, Sace e altri (che De Nicola invece invita a vendere) sono essenziali oggi per sostenere politiche di incentivazione dei programmi e lo sviluppo di strumenti finanziari innovativi
(e già in parte lo fanno).
da l’Unità 21.1.12