memoria

"Mauthausen la "musica" di noi maiali", di Gianfranco Maris

Gianfranco Maris, noto avvocato penalista, senatore del Pci dal 1963 al 1972, membro del Csm dal ’72 al ’76, attuale presidente dell’Aned (Associazione nazionale ex deportati politici) ha oggi 91 anni. Militante nelle file del partito comunista clandestino e poi della Resistenza milanese, ne aveva 23 quando da Fossoli, dove la Repubblica Sociale Italiana aveva allestito un campo di prigionia, venne trasferito in Austria, a Mauthausen. Ora ha affidato i suoi ricordi di quel periodo a un libro scritto con l’inviato-editorialista della Stampa Michele Brambilla, Per ogni pidocchio cinque bastonate (lo stesso titolo dell’intervista pubblicata un anno fa su queste colonne, per il Giorno della Memoria), edito da Mondadori (pp. 151, 17,50). Ne anticipiamo uno stralcio.

E’ la notte del 7 agosto 1944. Il treno si ferma davanti a una baracca illuminata con una luce gialla. È la stazione di Mauthausen. […] Facciamo così la nostra conoscenza con una nuova figura: i kapò. Sono loro, schiavi delle SS e feroci custodi del campo, che ci circondano brutalmente e ci ordinano di ammucchiare a terra i nostri abiti. Ci dicono che dobbiamo lavarci e che ci debbono tagliare i capelli: poi ritorneremo in possesso dei nostri indumenti, che ora dobbiamo raccogliere in ordine e posare ai nostri piedi, restando tutti completamente nudi. […] Torniamo in cortile e non troviamo più nulla dei nostri abiti, che ci avevano ordinato di piegare e di lasciare per terra. I kapò ci inquadrano con violenza, il cammino ora è celere, non c’è più nessuno che possa ritardare la marcia. Velocemente, con furore, ci portano dall’altra parte del campo, oltre un muro. Ci viene detto che stiamo per raggiungere la baracca di quarantena, dove impareremo a essere prigionieri.

Capiamo ben presto che i nostri amici non hanno passato la selezione degli idonei al lavoro e sono stati avviati all’eliminazione. Tutti noi altri veniamo portati nel reparto quarantena di Mauthausen. Siamo nudi, in una baracca completamente vuota, senza letti a castello. Di notte dormiamo sdraiandoci sul pavimento uno accanto all’altro, come sardine in scatola.

Non abbiamo più nulla, non ci è rimasto neppure lo spazzolino per i denti e sicuramente non abbiamo neppure un cucchiaio. Perché mi viene in mente il cucchiaio? Nella tarda mattinata ci viene distribuita una zuppa in una gamella per ogni due deportati: per cui la zuppa, un brodo di barbabietola da foraggio, deve essere bevuto a sorsi alternati. Ricordo come fosse adesso che in quel momento una cosa soltanto dominava su tutto: il rumore. Il rumore di queste sorsate, che sembravano la musica di tanti maiali gettati contemporaneamente nel truogolo.

Perché ci trattano cosi? Non ci sono nel campo gamelle sufficienti per somministrare a ciascuno la parte che gli compete di quella brodaglia? E non ci sono cucchiai di cui i prigionieri possano usufruire nonostante la loro spregevole condizione di nemici del Terzo Reich?

Finito il «pranzo», a ciascuno di noi viene distribuito un berretto. Cosi non siamo più tutti nudi: insomma siamo sì nudi, ma con un berretto. Ci chiamano subito fuori dalla baracca, ci inquadrano. Arriva un kapò e comincia a impartirci il suo nuovo ordine: «Mützen ab! Mützen auf!» (Berretto giù! Berretto su!). Va avanti così per ore. «Mützen ab! Mützen auf!» E noi per ore, nudi in un cortile, a tirarci su e giù il berretto. Poi entriamo nella baracca e passiamo la notte sdraiati uno accanto all’altro sul pavimento, nudi, senza nessuna coperta o riparo. La mattina dopo, di nuovo nudi in cortile e altre ore di “Mützen ab! Mützen auf!”. Poi la broda in una sola gamella per due persone e la “musica” del truogolo. Il giorno dopo ancora, l’assurdo rituale si ripete.

E così lo stesso per giorni e giorni. Di nuovo mi trovo a domandarmi: perché? Nessuno di noi conosceva a quel tempo le teorie di Pavlov e dei riflessi condizionati indotti nell’animale per ridurlo all’obbedienza assoluta. Obbedire, soltanto obbedire, immediatamente obbedire al suono di un comando. Come cani ammaestrati. E’ per questo che per settimane veniamo istruiti così, fino a quando non decideranno di trasferirci in un altro blocco di quarantena, quello di Gusen: primo campo contiguo a Mauthausen.

Il blocco di quarantena del campo di Mauthausen era chiuso tra alte mura. Ma al di là delle mura c’era un’altra baracca nella quale erano chiusi in isolamento gli ufficiali sovietici prigionieri di guerra che si erano rifiutati, in base alle convenzioni di Ginevra, di lavorare nell’industria bellica del Reich e che per questo rifiuto erano già stati condannati dalla Gestapo al «trattamento kappa». Ossia Kugel, proiettile.

Questi uomini potevano quindi essere uccisi, in qualsiasi momento, con un colpo alla nuca. Ma li si lasciava lì, nella baracca, con l’intento di farli morire in un altro modo, più lento e più atroce: di fame. Non venivano lasciati completamente senza cibo: li si alimentava a gocce, per rendere più straziante l’agonia. Era la “sapienza” nazista nel trattare i nemici. Ogni giorno ne morivano venti o trenta.

All’alba, alla sveglia, dovevano uscire dalla baracca e a gruppi di cento, scalzi, coperti di piaghe, si dovevano sdraiare per terra all’ordine «Nieder» (giù, abbasso). Così veniva fatto l’appello.

Poi, in fila indiana, dovevano strisciare carponi. Quindi dovevano alzarsi e restare fermi in piedi nel cortile davanti alla baracca, al caldo dell’estate o al gelo dell’inverno. Quando faceva freddo questi poveri uomini si appallottolavano tra di loro, formando, come le vespe, una palla, un fornello. Chi era all’interno della «palla» si riscaldava mentre il resto della «palla», con un movimento continuo, spostava quelli che stavano al centro verso l’esterno e viceversa.

Nel gennaio 1945 arrivò un nuovo gruppo di ufficiali sovietici. Avevano tentato la fuga ed erano stati condannati al trattamento Kugel.

I componenti di questo gruppo capirono perfettamente a che cosa andavano incontro e decisero di fare una cosa coraggiosissima per chi è chiuso in un inferno simile: scegliere essi stessi come morire. Non lasciare i nazisti padroni del loro destino. Decisero quindi di tentare la fuga, ben sapendo che anche solo il tentativo di scappare li avrebbe portati a una morte immediata.

Scavarono con le mani il terreno attorno alla baracca, si procurarono delle pietre, presero due estintori e una notte, in cinquecento, provarono a fuggire. Fecero saltare la corrente ad alta tensione che percorreva il filo spinato sulla sommità del muro di cinta gettandovi sopra coperte bagnate. Aggredirono i militari di guardia sulla prima torretta con delle tavole. E si misero a correre. Lasciarono sul terreno innevato una scia ininterrotta di morti e di sangue.

In pochi riuscirono ad allontanarsi dal campo. E per quei pochi si scatenò subito una caccia all’uomo alla quale parteciparono tutti i soldati delle SS e tutti i civili della zona: alcuni erano volontari, altri costretti a collaborare. La caccia all’uomo finì dopo molti giorni con l’annientamento di quasi tutti i cinquecento ufficiali sovietici che avevano tentato questa loro ultima spaventosa avventura. Spaventosa, ma forse non folle come potrebbe apparire. Undici di questi ufficiali riuscirono a sopravvivere. Liberi. Famiglie di contadini austriaci, come si seppe poi, li avevano ospitati e tenuti nascosti. E tanto basta per continuare a credere nell’uomo.

La Stampa 18.01.12