Ascoltando la relazione che il ministro della Giustizia Severino ha svolto in Parlamento sull’amministrazione della giustizia nell’anno decorso, si aveva la rassicurante sensazione che ella parlava di ciò che conosce. Di ciò di cui conosce in dati reali e la loro importanza, ma anche la difficoltà di affrontarne i problemi. Nessuna semplificazione o facile promessa di soluzione, quindi, ma descrizione della grave situazione e illustrazione delle sue implicazioni generali, unite all’indicazione di specifiche misure prese, da questo e dal precedente governo. Si tratta di interventi legislativi e amministrativi tutti in chiave di efficienza (o rimozione di cause dell’inefficienza). E proprio questi si richiedono al ministro della Giustizia, sia perché il principale problema della giustizia in Italia è la sua grave inefficienza (di cui la durata e onerosità dei procedimenti civili e penali è l’aspetto più vistoso), sia perché proprio questa è la responsabilità che la Costituzione assegna al ministro della Giustizia, cui spettano l’organizzazione e i servizi relativi alla giustizia.
Il ministro ha impostato il suo discorso, di cui non si possono qui seguire tutti i numerosi capitoli, secondo linee di cultura istituzionale lungamente rimaste in ombra sia a livello politico, sia nell’ambito della magistratura e dell’avvocatura: le due categorie professionali che il ministro ha giustamente più di una volta accomunato, richiamandole alle loro responsabilità di attori del servizio giustizia. Innanzitutto il ministro ha nettamente inserito l’amministrazione della giustizia tra i servizi pubblici i cui risultati devono essere valutati nel quadro generale dell’interesse pubblico. Anche quindi, specie di questi tempi, per gli effetti che essa produce nell’economia del Paese. Troppo spesso le riflessioni dei magistrati sul proprio ruolo e le prese di posizione dell’avvocatura non alzano lo sguardo al quadro generale degli effetti che, non questa o quella decisione giudiziaria determina, ma la gestione generale dei flussi di domanda di giustizia. In passato la resistenza a discorsi e iniziative tesi a promuovere l’efficienza del servizio sono stati contrastati, sia in un’ottica corporativa di difesa del modo di lavorare di ciascun magistrato, sia in chiave politica rifiutando l’efficienza di una giustizia di cui si chiedeva prima la riforma. A lungo le due posizioni si son date reciproco sostegno. E il rilievo dell’organizzazione degli uffici giudiziari e dell’interazione con il lavoro degli avvocati non sono ancor oggi pienamente apprezzati. Certo il ministro ha fatto riferimento alle buone pratiche messe in opera qua e là, ma occorre far opera di selezione e generalizzazione. Se occorre rimuovere abitudini sedimentate e risvegliare il senso istituzionale di magistrati e avvocati, il ministro non dovrebbe aver timore delle reazioni corporative che cercherebbero di nascondersi sotto i grandi principi dell’indipendenza dei magistrati e degli avvocati. E’ ora necessario distinguere ciò che tali principi comportano e che è intoccabile da ciò che invece rappresenta inammissibili e talora comodi individualismi refrattari alle esigenze del servizio.
Nello stesso ordine di idee il ministro ha fatto riferimento alla specializzazione dei magistrati, anche di recente oggetto di dibattito. La specializzazione dei magistrati è stata legata dal ministro alla produttività degli uffici e alla qualità delle decisioni, alla loro prevedibilità e costanza. Quantità e qualità della produzione giudiziaria considerate insieme, come è giusto. E’ noto l’imbarazzo manifestato da avvocati specializzati nella materia in discussione in certe cause complesse, nel dover difendere in piccoli Tribunali davanti a magistrati non preparati, magari umanamente e professionalmente ricchi, ma senza specifica esperienza. Il ministro ne ha parlato anche riferendo sui lavori in corso per la revisione delle circoscrizioni giudiziarie, che porterà alla eliminazione dei piccoli uffici. In essi nessuna specializzazione è possibile. In proposito, sarebbe da prevedere che la competenza dei Tribunali per materie che richiedono specializzazione sia attribuita dalla legge solo alle grandi sedi distrettuali. E’ possibile che la riforma delle circoscrizioni, con l’identificazione delle dimensioni ottimali degli uffici e del numero minimo di magistrati, sia l’occasione di una riflessione profonda sulla natura del servizio, che richiede che l’organizzazione degli uffici e la formazione dei magistrati assicuri nel giudicante l’equilibrio tra vastità di esperienza e specializzazione.
I tempi di questo governo non sono lunghi, tanto quanto la soluzione dei problemi della giustizia italiana richiederebbe. Ma non è poco ciò che è in cantiere e il ministro sa che proprio le difficoltà che il Paese attraversa potrebbero facilitare l’introduzione di riforme necessarie, ma che fino ad ora si sono dimostrate impossibili.
La Stampa 18.01.12