Scrivevamo l’anno scorso, commentando il precedente rapporto del “Governance Poll”, che gli enti locali erano la più sicura palestra dove allevare una nuova classe dirigente. Osservazione in sé abbastanza ovvia, che però va in parte ripensata e forse riformulata alla luce del rapporto di quest’anno.
Sarebbe meglio dire che negli enti locali cresce una nuova possibile dirigenza, in grado forse d’imporsi a livello nazionale, a patto che abbia la capacità di misurarsi con il principio di realtà. Detto in altri termini, è difficile governare una città, una provincia o una regione in tempi di recessione, nella crescente debolezza delle risorse economiche. Un buon sindaco oggi deve essere straordinario per riuscire a mantenere più o meno intatta la sua popolarità.
Non tutti ci riescono. Negli anni della spesa pubblica era assai più facile amministrare un capoluogo o una regione, il che equivale anche a dire che era molto più semplice creare consenso e mantenerlo. Oggi il consenso si forma sulle aspettative, sulla speranza di affidare le chiavi del potere a personaggi percepiti come estranei alla «casta», ossia al circuito di un vecchio “establishment”. Ma una simile figura, quando si riesce a individuarla, incontra rilevanti difficoltà, dopo l’elezione, a mantenere le promesse fatte. Oppure più semplicemente a mostrarsi all’altezza delle attese. Quindi s’innesca il meccanismo della delusione, che rischia di «bruciare» un potenziale leader nazionale.
Ecco allora che il tema degli scorsi anni (la nascita della nuova classe dirigente nelle amministrazioni locali) va adeguato ai tempi di vacche magre in cui siamo costretti a vivere.
Il caso di Matteo Renzi è significativo al riguardo. Il giovane sindaco di Firenze è una figura talentuosa e un ottimo comunicatore. Era stato eletto a Palazzo Vecchio sull’onda di grandi speranze. L’anno scorso il “Governance Poll” lo collocava in cima alla graduatoria, al primo posto. Era già primo cittadino da un anno e mezzo, ma l’onda lunga della popolarità non era stata scalfita dalle asprezze della vita amministrativa. Oggi, passato un anno, Renzi è precipitato quasi a metà classifica.
Cosa è successo? Non risulta che il sindaco abbia commesso grossi errori, anzi è stato un amministratore piuttosto dinamico. E il suo profilo nazionale è persino cresciuto, essendosi egli proposto come «uomo nuovo» del centrosinistra riformista. Eppure è partito il treno della disillusione. Quando la crisi morde, c’è sempre qualche categoria che si sente danneggiata più delle altre: dagli albergatori ai commercianti fino ai cittadini di tutti i ceti che, ad esempio, giudicano sporche le strade o poco curata l’illuminazione. Avere scarsi denari significa aumentare il numero degli scontenti, significa risparmiare oltre misura e non avere strumenti compensativi.
Questo spiega il parziale e forse provvisorio declino di Renzi, peraltro da lui stesso previsto un anno fa. Ma spiega anche il caso Pisapia, il sindaco inatteso che ha bruciato in pochi mesi la magìa della sua elezione in una Milano città complessa e faticosa da governare come mai in passato. È lo stesso paradosso di Firenze, solo più rapidamente consumato. E forse non è un caso che in testa alla classifica ci sia quest’anno il napoletano De Magistris. Nel capoluogo campano la speranza resiste perchè è la sola merce abbondante. Ci si aggrappa ancora al sindaco come all’uomo dei miracoli e gli si concede un lasso temporale che è negato ad altri, a latitudini più settentrionali.
Anche questa contraddizione fra Nord e Sud è una conseguenza della crisi, visto che nel Settentrione più ricco si rischia di essere delusi più in fretta. Fra le eccezioni positive c’è Tosi a Verona e in particolare Piero Fassino a Torino, prova evidente che la vecchia scuola politica a volte aiuta a fronteggiare i momenti difficili. Ma non basta per essere ottimisti. È vero, negli enti locali si prepara ancora il futuro. Ma il problema è che nessuno è in grado di decifrarlo.
Il Sole 24 Ore 16.01.12