Sono duemila anni che le parole dell’apostolo Paolo rivolte ai cristiani di Roma risuonano con forza per tutti i discepoli di Gesù Cristo. Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse le tasse; a chi il timore il timore; a chi il rispetto il rispetto». Parole che, accostate a quelle che gli evangelisti mettono in bocca a Gesù stesso – «Rendete a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio» – dovrebbero orientare il comportamento dei cristiani verso le autorità civili, in particolare per quanto riguarda il contributo economico da versare per la gestione della cosa pubblica e per i beni comuni che lo Stato garantisce, non affidabili alla sfera privata dell’economia per il semplice fatto che i «profitti» che se ne traggono sono forzatamente dilazionati nel tempo.
Ma se la risposta di Gesù a un quesito legato specificatamente a un «tributo da pagare a Cesare» è sovente ricordata ogni qualvolta si discute di laicità dello Stato o di atteggiamento da assumere da quanti sono al contempo cristiani e cittadini, non altrettanto si può dire dell’ammonimento di Paolo che viene troppo sbrigativamente relegato tra le indicazioni «datate», connesse a una situazione storica e sociale ormai scomparsa quale quella dell’impero romano.
Eppure credo che possa essere prezioso, non solo per i cristiani, arricchire l’attuale riflessione sulle tasse, con questo concetto anche neotestamentario di «rendere» il dovuto a chi gli spetta, con questo invito al discernimento degli ambiti, al rispetto delle prerogative e dei limiti di ogni «signoria», sia essa politica o religiosa. Tale discernimento infatti mi pare strettamente legato alla consapevolezza o meno della propria appartenenza a una «comunità», del sapersi membra di un determinato corpo, ecclesiale o sociale. Quando, pochi anni fa, uno dei più seri, lucidi e preparati ministri dell’economia che il nostro Paese abbia mai avuto definì «bellissimo» il fatto di pagare le tasse, venne deriso: ormai smarrita ogni etica civile collettiva, chi aveva osato ricordare la bontà di un gesto solidale come il pagare le imposte finalizzate al bene comune non poteva che essere messo alla berlina. Ma il problema oggi come allora è proprio qui, nella mancanza di coscienza collettiva: non si può chiedere un gesto di condivisione a chi non sa più di essere parte di un organismo vivente, come non si può chiedere alle braccia o alle gambe di faticare per un corpo che esse considerano estraneo.
Nel nostro Paese non si rispetta il principio anglosassone del «nessuna tassa senza rappresentanza» (infatti gli immigrati pagano le tasse ma non partecipano alle elezioni), ma nemmeno quello speculare del «nessuna rappresentanza senza tassa» (molti italiani all’estero non sono tenuti a pagare le tasse in Italia ma eleggono rappresentanti in Parlamento) e mi chiedo se uno dei motivi della progressiva disaffezione verso l’Europa non abbia anche a che fare con il fatto che non paghiamo direttamente alcuna tassa per il fatto di essere cittadini europei: cosa ho a che fare con quest’entità superiore che non ha una cassa comune alla quale io contribuisco? Si è infatti disposti a pagare di tasca propria solo per una realtà che ci supera ma che sentiamo nostra: dalle storiche società di mutuo soccorso, all’autotassazione spontanea in vista di un progetto condiviso, alle collette di solidarietà tra colleghi, alla decurtazione del salario conseguente allo sciopero, sempre siamo capaci di uscire dal nostro interesse particolare quando lo riconosciamo presente in un interesse più ampio, capace di includere non solo il nostro presente ma anche una comunità più ampia e il futuro, che speriamo migliore per noi e per le generazioni che verranno.
Questo smarrimento del senso di appartenenza – il Comune non è più «comune» a nessuno, lo Stato non siamo noi, l’Europa è un mostro estraneo, l’umanità è un’entità vaga cui non appartengo – porta a una regressione verso la tribù, il clan, il legame di sangue (non a caso ancora oggi unico criterio per la cittadinanza in Italia), dove l’essere insieme è conseguenza di un dato biologico o di un condizionamento sociale e non di una libera scelta di persone libere che condividono fatiche e speranze, ideali e difficoltà, cultura e visioni del mondo, senso della giustizia e dell’equità, panorami e patrimoni artistici.
È una tentazione presente anche tra i cristiani: ritenere che il corpo ecclesiale sia formato solo da chi ha gusti spirituali e orientamenti teologici simili ai nostri, non ci contraddice mai né ci disturba con i suoi bisogni; perdere la memoria di quanti hanno versato non solo qualche moneta nella cassa comune ma il loro stesso sangue per la vita degli altri; escludere dal nostro orizzonte nuovi compagni di cammino per non dover spartire con loro i nostri beni; sfruttare le risorse di tutti per il profitto di pochi; negare il futuro alle nuove generazioni per soddisfare ogni nostro capriccio… sono mali che attraversano le nostre comunità, civili e religiose.
Le tasse sono un antidoto a questa deriva, sono la possibilità che mi è offerta di donare puntualmente ed equamente qualcosa della mia ricchezza perché possa crescere il bene comune, attraverso servizi, infrastrutture, strumenti educativi, opportunità sanitarie, condivisione allargata ad altri Paesi e popoli. Ormai vent’anni fa un prezioso documento della Cei – «Educare alla legalità», troppo velocemente dimenticato – analizzava con acutezza questa problematica e così concludeva: «Nel costruire una società sempre più autenticamente umana e più vicina al regno di Dio… i cristiani siano esemplari proprio come “cittadini”, sempre ricordando il monito del Concilio: “sacro sia per tutti includere tra i doveri principali dell’uomo moderno, e osservare, gli obblighi sociali”». Anche pagando le tasse.
La Stampa 15.01.12