È andata com’era prevedibile andasse dopo l’indicazione del capo leghista Umberto Bossi, che pare aver ricompattato — a parte la fronda maroniana e qualche smagliatura nei rispettivi schieramenti — l’ex maggioranza che sosteneva il governo Berlusconi. Con una decisione presa più al mercato della politica che valutando la singola vicenda giudiziaria di un deputato inquisito per camorra; ciò che era immaginabile alla vigilia, l’ha dimostrato il dibattito parlamentare che ha accompagnato il voto.
Chi ha detto no all’arresto dell’onorevole Cosentino, magari dopo aver detto sì in Giunta, poteva almeno provare a dimostrare che c’era un po’ di fumus persecutionis nella seconda richiesta dei magistrati. Non limitarsi a dirlo come fosse, quello sì, un «teorema», magari citando più o meno a sproposito le poco comparabili vicende di Strauss-Kahn o di Enzo Tortora. Il quale, peraltro, fu eletto al Parlamento europeo nelle liste radicali dopo essere finito ingiustamente in carcere, non prima, e si dimise dalla carica pur di affrontare i suoi giudici al pari di un cittadino qualunque; ogni paragone con la vicenda Cosentino, per rispetto di tutti, sembra davvero improponibile. La Camera era chiamata a stabilire se la richiesta di cattura fosse commisurata alla gravità delle accuse mosse al parlamentare (fondate non solo su dichiarazioni di pentiti e intercettazioni, ma anche su fotografie e pedinamenti di chi utilizzava i «buoni uffici» dell’uomo politico considerato il «referente politico» del clan dei Casalesi), come se si trattasse di un indagato qualunque; oppure se, al contrario, ci sia stato nei suoi confronti un particolare accanimento derivante proprio dalla sua attività politica e dal ruolo che ricopre. Insomma, Cosentino perseguitato politico: per bizzarro che possa apparire, è quel che ha proclamato l’assemblea di Montecitorio. Qui non si tratta di recriminare perché una persona, deputato o meno, non è andata in galera prima dell’eventuale condanna. Anzi. Buon per Cosentino che l’ha scampata, a differenza del suo collega Papa che ha dovuto pagare lo scotto di un altro momento politico, di altre strategie e altri messaggi che la Lega volle mandare all’interno della ex maggioranza. Il mondo perfetto sarebbe quello dove la carcerazione preventiva non avesse ragione di esistere. Ma quel mondo purtroppo non c’è. E quello in cui ci tocca vivere sarebbe forse un po’ meno imperfetto se un parlamentare indagato per concorso con la camorra non riuscisse a evitare l’arresto solo perché un gruppo di pari grado politicamente schierati dalla sua parte decidono di non mandarcelo, a differenza degli altri indagati nello stesso procedimento. Questo, invece, è quel che è accaduto. Un rappresentante del Pdl, di professione avvocato, s’è lanciato in un’arringa difensiva in cui ha sostenuto che sul conto di Cosentino non ci sarebbe l’ombra di una prova, mentre altri personaggi coinvolti «sono effettivamente delinquenti». Alla faccia del garantismo. Qui la vera garanzia che sembra essere scattata non è quella, sacrosanta, dell’inquisito Cosentino che ha diritto al giusto processo e prima a un’indagine svolta nel rispetto delle regole, bensì quella dell’onorevole Cosentino che ha potuto approfittare di una ricomposizione politica decisa per motivi e prospettive che poco o nulla hanno a che vedere con la sua posizione giudiziaria. Tutto questo non fa bene all’immagine della politica, e rischia di allontanare ancora di più i cittadini da chi rappresenta le loro istituzioni; i sondaggi televisivi di ieri, per quanto valgono, lo fanno già intendere. Non solo. Il voto di ieri rischia di riproporre l’estenuante e asfissiante conflitto tra politica e magistratura, che si sperava potesse finalmente superarsi col cambio di governo. Per come è maturata, la decisione della Camera che per la seconda volta ha negato l’arresto dell’indagato-onorevole Cosentino suona pure come una sfida ai pubblici ministeri e ai giudici che l’avevano sollecitato. E sa molto di delegittimazione.
Il Corriere della Sera 13.01.12