Le coincidenze, nella vita, sono casuali. In politica, invece, sono determinanti, perché sono capaci di imprimere un significato unitario a eventi apparentemente non collegati tra loro. La giornata di ieri ne ha fornito un altro inequivocabile esempio: il «no» della Consulta ai referendum elettorali e quello del Parlamento all’arresto di Cosentino, piovuti contemporaneamente sulla testa di un’opinione pubblica a dir poco sconcertata, hanno rafforzato l’impressione di una classe politica sempre più chiusa nel bunker.
Sorda e persino irridente rispetto alla sensibilità, agli umori, alle speranze dei cittadini.
E’ logico, è giusto ed è anche augurabile che le distinzioni e le responsabilità non si confondano in una esasperazione di sentimenti demagogici. Le scelte della Corte Costituzionale riflettono indubbie difficoltà giuridiche a contraddire una costante linea interpretativa sulla cosiddetta questione della «riviviscenza» di una legge modificata rispetto a quella che si vuole cancellare. Più difficile, invece, giustificare come casi di coscienza dei singoli parlamentari decisioni che, come è stato evidente nel caso Cosentino più ancora che nelle vicende Milanese e Papa, chiudono o aprono a un uomo le porte del carcere secondo le convenienze del momento, magari secondo patti inconfessabili, fruttuosi nel passato e buoni anche nel futuro.
Eppure, è del tutto comprensibile cercare di prevedere, insieme, le conseguenze dei due «no», sia perché sarebbe ipocrita far finta che non indichino una direzione comune, sia perché sarebbe rischioso far finta di non capire le reazioni dei cittadini a questi due negativi verdetti. L’osservazione più immediata è stata quella di quasi tutti i commentatori politici: sia la Consulta sia il Parlamento hanno finito, ieri, per rafforzare il governo. L’incubo del referendum, infatti, avrebbe alimentato la tentazione di affrettare la legislatura per evitarlo, vista la pratica impossibilità di trovare un accordo, su un tema così controverso e delicato, in pochissimo tempo. D’altra parte, l’isolamento parlamentare del Pdl e la sua clamorosa sconfitta, nel caso di un «sì» all’arresto di Cosentino, avrebbe reso più difficile la persistenza del partito di Berlusconi nell’inedita alleanza con Pd e Udc a sostegno di Monti.
Questa opinione è del tutto condivisibile, ma dovrebbe trovare una certa compensazione nel giudizio sul significato, meno evidente ma non trascurabile, della ritrovata sintonia tra Pdl e Lega, al fine di riaffermare la volontà decisiva del Parlamento sulle sorti della politica nazionale. Come se il ripetuto avvertimento di Berlusconi al premier sulla possibilità di estrometterlo da Palazzo Chigi in qualsiasi momento suonasse, ora, più forte e più allarmante.
La delusione degli oltre un milione e duecentomila firmatari della proposta di referendum contro il cosiddetto «porcellum» elettorale e dei tantissimi altri che certamente condividevano la speranza di poterlo cancellare con la scheda referendaria dovrebbe trovare una qualche consolazione nell’impegno, espresso ieri da tutti i politici, a trovare un accordo per una nuova legge. Finora, nonostante l’indignazione dei cittadini italiani per l’esproprio della loro volontà nella composizione del Parlamento, i rimbrotti della Corte Costituzionale che saranno probabilmente ripetuti nella motivazione della sentenza di ieri, le esortazioni del capo dello Stato, i partiti non sono stati capaci, o non hanno voluto, cambiare quella legge. Perché, ora, dovremmo essere più fiduciosi di non dover mai più votare con quelle regole?
Il paragone con l’attività del governo è troppo utile, a questo proposito, per non farvi ricorso. Così come l’Europa ha costretto la politica ad assecondare Monti, sia pure con qualche maldipancia, nella dura azione di risanamento del bilancio pubblico, così il referendum avrebbe imposto al Parlamento di raggiungere un’intesa su una diversa legge elettorale. Tolto, col verdetto della Consulta, lo spauracchio della consultazione popolare, chi potrebbe escludere, come è stato negli anni passati, un nuovo fallimento di un accordo dimostratosi così arduo? Anche perché ai leader dei partiti, di tutti i partiti, fa così comodo la possibilità di modellare a loro piacimento il volto delle loro rappresentanze parlamentari, senza le sorprese determinate dalle scelte, magari difformi, degli elettori.
Nonostante i legittimi dubbi, non possiamo abbandonarci al pessimismo. Anche perché se al governo Monti fosse impedito di proseguire nell’opera di salvataggio dell’Italia, dovremmo dare l’addio all’Europa e all’euro. Se i partiti dovessero ostinarsi a ignorare i sentimenti e la volontà dei cittadini, potremmo correre il rischio di dire addio alla democrazia.
La Stampa 13.01.12
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Il patto tra il Cavaliere e Bossi per il voto in primavera
“Risate di sollievo, Denis Verdini, coordinatore del Pdl, sorride assieme al collega campano Cosentino”, di AMEDEO LA MATTINA
Atteggiamenti che guidavano le mosse e le contromosse politiche prima del governo Monti. Soprattutto sono tornati ad intendersi Berlusconi e Bossi, che ha salvato il coordinatore dimissionario del Pdl campano per ammazzare Maroni e le sue «velleità» di leadership nel Carroccio. «Certo – spiega Casini nella sede del gruppo Udc della Camera – una piccola mano d’aiuto nel salvataggio lo ha dato qualche microcefalo sparso qua e là nei partiti che erano a favore dell’arresto di Cosentino, ma non c’è dubbio che ha ragione Matteoli: esiste ancora una maggioranza PdlLega».
«Sì, è vero, è sempre la maggioranza berlusconiana, ma sono arrivati anche voti dall’Udc e dal Pd», commenta Verdini, al quale si avvicina il deputato Giorgio Jannone per fargli i complimenti: «Denis, anche questa volta hai fatto il miracolo». Il miracolo, già sperimentato in passato per tenere in piedi il Cavaliere, sarebbe stato quello di affidare a parlamentari Pdl l’incarico di avvicinare i colleghi di altri partiti nei collegi e convincerli a votare a favore di Cosentino. In altre occasioni che hanno dato vita a scissioni, a passaggi da un gruppo all’altro e alla nascita di nuove formazioni politiche, l’opposizione del governo precedente lo aveva accusato di ben altri metodi: quello economico innanzitutto. Ma sono polemiche e supposizioni di altri tempi. Oggi basta far leva sulla difesa di casta («adesso tocca a Cosentino, domani può toccare a te») o sulla sensibilità garantista di qualche ex democristiano, e non solo («si sta votando sull’arresto di un collega e non di fermare il processo»). Il risultato è che Verdini ha fatto un report millimetrico a Berlusconi: «Anche con la defezione di una decina di maroniani, Cosentino ce la farà, per 13 voti». Sbagliando solo di 2 voti. Così nella rete sono caduti anche alcuni deputati dell’Udc, come sono convinti anche nel Fli.
Ma nella partita che si è giocata ieri c’è dell’altro, molto di più, e riguarda gli scenari e le alleanze del futuro dove Berlusconi non sembra intenzionato per niente ad uscire di scena. Rinsaldando l’asse con Bossi.
Sarebbe stato il Senatùr a cercare il Cavaliere per fare fuori Maroni. E l’ex premier avrebbe ingolosito il suo vecchio sodale promettendogli che tra marzo e aprile avrebbe staccato la spina a Monti per andare ad elezioni tra maggio e giugno. Non solo. Gli avrebbe garantito che la legge elettorale non verrà cambiata. Al massimo si cambia il premio di maggioranza del Senato per evitare che il Terzo Polo possa essere determinante.
Il presunto patto segreto tra Berlusconi e Bossi è circolato con insistenza a Montecitorio, ma fonti leghiste negano. Rimane il fatto che sono molti gli esponenti del Pdl di primo piano a temere le spinte elettorali che montano nel partito. «Aspettiamo fino a marzo – dice La Russa – e vedremo se Monti avrà colpito solo le categorie non sindacalizzate e che sono in genere la nostra base elettorale. Se sarà così e avrà salvaguardato Pd e Cgil, allora si andrà a votare, anche in autunno perché lo scioglimento delle Camere si può fare pure durante il semestre bianco. È previsto dalla Costituzione quando la fine della legislatura coincide con la rielezione del Capo dello Stato». La voglia di elezioni si rafforza nel Pdl, al di là se sia vero il patto tra Berlusconi e Bossi. Se ne rende conto Alfano che oggi, nell’incontro a Palazzo Chigi, dirà a Monti di essere prudente, di stare attento a non colpire solo da una parte, a non mettere troppo in difficoltà il suo partito dove bollono gli ardori elettorali.
«Forse – confida uno dei falchi – Alfano avrà sentito Berlusconi accarezzare l’idea di far saltare il tavolo tra qualche mese». Ma sono in molti a sconsigliare il Cavaliere dal fare colpi di testa, a cominciare da Gianni Letta, Cicchitto, Frattini, Fitto. Forse l’ex premieravrà ingolosito Bossi, ma nelle riunioni che ha fatto in questi giorni a Palazzo Grazioli è sembrato convinto sul fatto che occorre aspettare, almeno fino all’estate. E che in questa situazione di forte crisi europea e internazionale, in piena recessione, di fronte a qualche risultato portato a casa dalla Merkel, non si può trascinare l’Italia nell’agone elettorale. «Non so come, ma dobbiamo arrivare al 2013», avrebbe detto. Anche perché i sondaggi per il Pdl non sono incoraggianti. Un Cavaliere comunque double-face, come sempre. Farà la sua mossa al momento opportuno e in base alle sue convenienze.
La Stampa 13.01.12
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Radicali decisivi nel voto in Aula Nuova rottura con il gruppo “Pd”, di CLaudia Fusani
Con i sei voti radicali, Cosentino sarebbe andato in carcere per un voto di differenza. Rosy Bindi li accusa di scorrettezza. Enzo Carra rincara la dose. Ma i loro voti erano già contati alla vigilia tra i contrari all’arresto. Sei voti «determinanti» punta il dito il presidente del Pd Rosi Bindi contro la pattuglia radicale. «Ancora una volta sono stati scorretti, se avessero votato con noi le cose oggi sarebbe andate in maniera diversa» insiste.
Sei voti decisivi. Se i sei deputati radicali avessero votato a favore dell’arresto di Cosentino, secondo le indicazioni del Pd, i sì sarebbero stati 304 e i no 303. Il deputato di Casal di Principe sarebbe cioè andato in cella per un voto.
Ma non inaspettati. I sei voti radicali, infatti, erano già contati mercoledì sera, alla vigilia del voto, nel monte dei 298 voti a disposizione dell’ex coordinatore del pdl campano. Il punto quindi è capire da quale banco dell’emiciclo sono arrivati gli altri undici voti in più.
Tutto si può dire ma non che il no dei Radicali fosse inaspettato. Maurizio Turco, membro della Giunta per le autorizzazioni, è uno dei più profondi conoscitori del caso Cosentino e di Gomorra di Casal di Principe. E questa volta, così come nel dicembre 2009, Turco non ha mai avuto dubbi: «Cosentino potrà anche essere il referente politico nazionale dei casalesi» è la sintesi del suo ragionamento «ma questo non viene fuori dalle carte». E di carte Turco ne ha lette tante in questi anni. Non solo quelle arrivate in Giunta: si è procurato libri e più che altro gli atti dei processi Spartakus 1, 2 e quello al boss «Sandokan» Schiavone. Come se non bastasse, si è messo anche a seguire le udienze del processo in corso a Santa Maria Capua a Vetere dove Cosentino è imputato per associazione mafiosa, voto di scambio e altri favori ai clan.
Una scelta, quindi, fatta in piena coscienza che ha convinto anche gli altri cinque deputati radicali, Rita Bernardini, Matteo Mecacci, Farina Coscioni, Marco Beltrandi e Elisabetta Zamparutti. «Cosentino è già a processo. Il dibattimento è già incardinato. vediamo cosa succede. Che senso ha arrestarlo?» ha insistito Turco. E poi parole destinate soprattutto ai compagni di maggioranza, i deputati del Pd seduti lì sotto: «I Radicali non condividono le tesi della maggioranza. Noi non giudichiamo gli altri e voi non giudicate noi. Non criminalizzate decisioni diverse da quelle del conformismo imperante».
Non basta per evitare gli strali che subito dopo il voto si scatenano sulla pattuglia radicale. Quelli di Rosi Bindi, prima di tutto. E quelli di Enzo Carra: «Con il voto di oggi i radicali hanno contribuito a strappare Cosentino dal regolare corso della giustizia. Si tratta di una scelta scorretta e gravissima».
I Radicali hanno votato a favore dell’arresto di Papa, Milanese e Angelucci. Ma lo scontro più grosso con il Pd è stato il giorno del voto sul rendiconto di bilancio. Quando furono, allora sì, decisivi per far scattare il quorum che salvò ancora per un mese Berlusconi.
L’Unità 13.01.12