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"Perché far pagare le tasse è una rivoluzione culturale", di Stefano Rodotà

Il blitz di Cortina e la campagna per gli scontrini mostrano come la battaglia sul fisco stia diventando politica, contro le disuguaglianze e per l´equità. Una questione capitale che sembra destinata a sconvolgere equilibri colpire interessi consolidati e mettere fine ad antiche compiacenze. Siamo alla radice dell´obbligazione sociale: se “tutti” non significa veramente “tutti”, allora il legame di solidarietà viene infranto
Nella controversa agenda politica di questa difficile stagione ha fragorosamente fatto ingresso la lotta all´evasione fiscale. Non più come tema polemico, non più come rivendicazione di qualche buon esito di un´azione amministrativa di contrasto, ma come questione capitale, destinata a sconvolgere equilibri, colpire interessi, revocare in dubbio compiacenze. Questo è avvenuto con due mosse fortemente simboliche. Il blitz a Cortina e una dichiarazione del Presidente del consiglio che ha indicato negli evasori quelli che «mettono le mani nelle tasche dei contribuenti onesti». Non siamo solo di fronte allo smascheramento dell´ipocrita vulgata berlusconiana, ma alla denuncia di una inaccettabile redistribuzione alla rovescia delle risorse, per cui oggi sono soprattutto i meno abbienti a pagare servizi di cui, troppe volte, sono proprio i più ricchi ad avvantaggiarsi (si pensi solo al caso dell´istruzione universitaria, alla quale spesso non riescono poi ad accedere i figli di chi maggiormente la finanzia). Ed è giusto ricordare quel che disse Tommaso Padoa Schioppa: «le tasse sono una cosa bellissima e civilissima, un modo di contribuire tutti insieme a beni indispensabili come la salute, la sicurezza, l´istruzione e l´ambiente».
Ironie e dileggi accolsero questo limpido richiamo alle virtù civiche. E oggi sono violente le reazioni dei molti che ritengono inaccettabile una priorità come la lotta all´evasione, certamente incompatibile con il melmoso immoralismo che si è fatto cemento sociale e nel quale si è cercato il consenso politico. Ma i gesti simbolici sono importanti, a condizione che siano poi accompagnati da inflessibile volontà politica e da quella adeguata strumentazione tecnica ricordata da Alessandro Penati, con una sottolineatura significativa: la necessità di modificare “i comportamenti individuali e collettivi”.
Qui si gioca la partita vera. Certo, «non si cambia la società per decreto» – ammoniva Michel Crozier. È indispensabile, allora, un lavoro che vada nel profondo e rimetta in onore principi fondativi abbandonati. E, poiché questi sono tempi in cui è così insistente il richiamo ai doveri (magari per rendere più debole l´appello ai diritti), bisogna partire dai «doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale» previsti dall´articolo 2 della Costituzione. Ma contro la solidarietà sono state spese negli anni passati parole di fuoco, denunciandone i “pericoli” e, muovendo da questa premessa, si sono organizzate “marce contro il fisco”. Si è così cercato di svuotare di senso sociale e di valore civile l´articolo 53 della Costituzione: «tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva» e secondo criteri di progressività. Da quest´insieme di doveri, invece, non si può “evadere”.
Arriviamo così alla radice dell´obbligazione sociale e del patto tra cittadini e Stato. Nel momento in cui “tutti” non significa davvero “tutti”, e emerge con nettezza che il contributo alla spesa pubblica appare inversamente proporzionale alla capacità contributiva, con i meno abbienti che pagano più dei ricchi, allora si rompe il legame sociale tra le persone, tra le generazioni, tra i territori. Il ritorno pieno al principio di solidarietà, come valore fondativo, è la via obbligata per interrompere questa deriva e la Costituzione, parlandone come di un insieme di doveri inderogabili, individua un criterio ordinatore dell´insieme delle relazioni tra i soggetti, anzi un connotato della cittadinanza.
Abbandonando quel riferimento, infatti, si innescano processi che dissolvono la stessa obbligazione politica. Torna alla memoria un´espressione icastica e fortunata, legata alla rivoluzione americana: «No taxation without representation» – nessuna tassa senza rappresentanza politica, principio che ritroviamo nell´articolo 22 della Costituzione che affida solo alla legge, dunque a un atto del Parlamento, l´imposizione di prestazioni patrimoniali. Ma, una volta garantito il rispetto di tale principio da parte delle istituzioni pubbliche, il rapporto così istituito vincola il cittadino a fare la sua parte. L´evasione, allora, lo delegittima come partecipante a pieno titolo alla comunità politica.
Sono questi i punti di riferimento, rispetto ai quali valgono poco gli esercizi intorno al ruolo da riconoscere alla ricchezza. Questa, benedizione di Dio o sterco del diavolo, fa semplicemente nascere un dovere sociale. Non è una penalizzazione, dunque, un vera lotta all´evasione, ma lo strumento indispensabile per ricostituire una delle condizioni di base per il funzionamento di un sistema democratico. Ma il rigore non deve essere necessariamente declinato nei termini dell´emergenza. Come il contrasto alla criminalità non rende legittimo il ripescaggio delle perquisizioni senza autorizzazione del magistrato, così la lotta all´evasione deve rifuggire da strumenti sbrigativi, e non in linea con le indicazioni europee, come quelle riguardanti la segnalazione di ogni movimento d´un conto corrente.
Ricordiamo, poi, che già l´articolo 14 della Dichiarazione dei diritti dei diritti dell´uomo e del cittadino del 1789 parlava del diritto del cittadino di “seguire l´impiego” dei contributi versati. Una vera lotta all´evasione, dunque, ha come complemento necessario una totale trasparenza pubblica, una implacabile lotta alla corruzione, l´inaccettabilità d´ogni forma di uso privato di risorse pubbliche.

La Repubblica 13.01.12

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“LE RIVOLTE E I FURBETTI”, GIORGIO RUFFOLO

Secondo una ricerca americana si possono contare oltre duecento famose rivolte fiscali nella storia dell´era cristiana, dal primo secolo ad oggi: da quelle legate ai grandi movimenti popolari di lotta per la libertà – le grandi rivoluzioni americana francese russa – alle ribellioni popolari contro la tassa sul whiskey negli Stati Uniti o all´insurrezione provocata dalla bella Lady Godiva a Coventry nel 1067 contro il marito che aveva inflitto alla popolazione una tassa intollerabile, fino al punto di sfidarlo cavalcando nuda per la città.
Altre però sono le rivolte popolari contro l´oppressione fiscale, altri i fenomeni di evasione fiscale. Le prime sono condotte in nome della giustizia e della solidarietà, gli altri attraverso il privilegio e la diserzione. Tre sono le principali caratteristiche dell´evasione fiscale: l´indifferenza, la differenza, la privatezza. Indifferenza verso la solidarietà sociale; differenza proclamata o praticata verso concittadini di altri luoghi o altri credi; privatezza, chiusura dei rapporti di solidarietà entro l´ambito familistico.
Può senz´altro contribuire ad alimentare questi sentimenti una eccessiva pressione fiscale. È il caso, nell´antichità, della persecuzione dei cittadini romani oppressi dal fisco nella tarda età imperiale: intollerabile fino al punto da indurli a rifugiarsi nelle terre dei barbari, Ma, in primo luogo, l´evasione si manifesta anche in presenza di regimi fiscali ragionevoli. Inoltre, la reazione sociale ad una pressione fiscale pesante è diversa secondo il contesto sociale. Ad esempio, all´inizio dell´età moderna, la pressione fiscale delle grandi monarchie europee divenne particolarmente invadente: in Francia a causa delle continue guerre provocate dall´irresponsabile aggressività di Luigi XIV che esigeva un massiccio finanziamento degli eserciti. In Inghilterra a causa delle conquiste coloniali, che comportavano l´onere di una grande flotta. Il peso rispettivo delle imposte nei due paesi era grosso modo equivalente. Ma la reazione politica fu diversa. In Francia, la borghesia reagì con una contestazione sempre più accanita, che sfociò poco più tardi nella rivoluzione. In Inghilterra in una contrapposizione certo energica tra i Comuni e la Corte, che tuttavia non giunse, se non in un breve periodo, a pregiudicare l´unità politica del paese. La diversa reazione si deve al diverso grado di coesione sociale.
Quello dell´Italia, è il caso di un paese nel quale, a differenza della Francia e dell´Inghilterra, la nazione non si è consolidata nella forma dello Stato nazionale moderno, ma in quella di un conglomerato di Stati regionali prosperi per ricchezza, smaglianti per cultura, ma militarmente e politicamente fragili. L´Italia ha pagato la sua secolare egemonia con una secolare servitù che ha fiaccato il nerbo della coscienza civile e ostacolato la formazione di una coscienza nazionale. Ora, è proprio sulla coscienza civile e nazionale che si fonda in ultima analisi il rispetto dello Stato e la solidarietà dei cittadini, entrambe gravemente carenti nel nostro paese. La particolare gravità dell´evasione fiscale, di dieci punti superiore, ancora oggi, a quella della media europea, testimonia di questa inferiorità sociale e morale. Di cui è espressione eloquente il benign neglect verso l´evasione fiscale di un recente Presidente del Consiglio che in nessun altro paese moderno avrebbe potuto manifestarlo.
Per consolarsi in qualche modo si può ricordare che al momento dell´unificazione, centocinquanta anni fa, non pagavano le tasse la metà degli italiani. Sono stati ridotti a 25 per cento cinquanta anni fa e a 17 per cento oggi. Il tempo, almeno quello, è galantuomo.

La Repubblica 12.01.12

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“L´altra faccia del diritto”, di JOHN LLOYD

L´evasione fiscale continuava a essere assai diffusa, soprattutto fra i lavoratori autonomi. Il miracolo economico aveva reso più evidenti i fenomeni di evasione fiscale. Razza padrona… cesellatori dell´evasione fiscale, surfers dello off shore. Al cuore della vita nazionale e civile c´è il diritto che un governo ha di imporre tasse. Sin dai primordi della vita in Gran Bretagna tale diritto è stato messo in rapporto con la democrazia: nella Magna Charta – l´importante documento dettato al debole re Giovanni nel 1215 dai potenti baroni – il re approvò che le tasse non sarebbero state imposte “fuorché da una decisione comune del nostro regno”, prima forma di richiesta di voto sulle tasse che un re potesse esigere.
Quello, indubbiamente, fu un primo piccolo passo avanti, ma la richiesta dei baroni di fatto esprimeva un nuovo principio: tutte le persone fuorché il sovrano avevano tanto diritti quanto doveri. L´idea di uno stato più grande di colui che governa fu poi espressa compiutamente per la prima volta da Niccolò Machiavelli, ma ad anticiparla in un certo senso furono i baroni inglesi e tale criterio entrò a far parte delle consuetudini a mano a mano che il parlamento divenne più potente.
L´importanza che la regolamentazione fiscale ha assunto nella storia britannica e il fatto che equivalga all´avere diritti civili spiegano la percentuale relativamente bassa di evasione fiscale. Percentuale relativamente bassa di evasione non significa necessariamente che essa sia bassa in assoluto: da varie stime si calcola che l´elusione fiscale (lecita) e l´evasione fiscale (illecita) costino al Tesoro fino a 40 miliardi di sterline l´anno. Tale cifra è in ogni caso di gran lunga inferiore agli stimati 275 miliardi di euro che vanno persi nell´economia sommersa italiana, in buona parte per evasione fiscale, ed è ancor più inferiore agli stimati 500 miliardi di euro che gli italiani custodiscono all´estero e non dichiarano come facenti parte dei loro beni.
Come si spiega questo fenomeno? Prima di tutto c´è il presupposto che nel Regno Unito le tasse debbano essere pagate sic et simpliciter – retaggio in parte storico, in parte dovuto al timore che si ha del fisco, particolarmente severo nei confronti di chi prova a evadere. Le autorità del fisco britannico non danno per scontato – come spesso affermano quelle italiane o i politici italiani stessi – che sia impossibile prendere chi evade le tasse o assicurare alla giustizia quel gran numero di imprenditori, lavoratori autonomi e in proprio che dichiarano redditi di gran lunga inferiori a quelli reali.
In secondo luogo la forma più comune di tassazione, quella sui redditi, è relativamente bassa e benché il governo abbia alzato la percentuale massima per i più abbienti portandola al 50 per cento, ha anche detto che la ridurrà quanto prima possibile.
In ogni caso, però, l´elusione e l´evasione fiscale sono aumentate nel Regno Unito, sia da parte delle aziende sia dei singoli cittadini. Le piccole aziende ormai chiedono sistematicamente pagamenti in contanti così da poter evitare di dichiararli come introito, e le società – soprattutto del settore finanziario – reclutano intere squadre di consulenti fiscali il cui unico compito è quello di spostare i capitali verso attività e giurisdizioni dall´imposizione fiscale più bassa possibile. Come in Italia, anche l´attuale coalizione di governo in Gran Bretagna ha dichiarato guerra agli “evasori fiscali”, ben sapendo che il fardello dell´evasione ricade su coloro che sono ligi al pagamento delle tasse. Il principio dell´obbligatorietà democratica di pagare le tasse è andato scomparendo: sia David Cameron sia Mario Monti credono di poterlo riaffermare, ma il primo ministro italiano farà più fatica.
Traduzione di Anna Bissanti

La Repubblica 12.01.12