L´Italia si era quasi abituata ad assistere a indecorosi teatrini in cui la difesa d´ufficio di questo o quel ministro, di questo o quel sottosegretario coinvolto in penosi affari giudiziari si trasformava in offesa alla magistratura e al buon senso dei cittadini. Se il cambio di passo di Mario Monti è sembrato subito marcato rispetto al suo predecessore sul terreno dell´azione di governo e – per così dire – dei costumi politici, in una certa misura anche la soluzione imposta per risolvere la grana Malinconico ha confermato la novità.
Il presidente del Consiglio ha chiesto e di fatto preteso nel giro di pochissimi giorni le dimissioni di un membro del governo implicato in una vicenda dai profili decisamente oscuri. Una scelta che costituisce una cesura rispetto al recente passato. Un orientamento che attesta una piccola rivoluzione nei comportamenti politici e istituzionali. Monti si è reso conto che un uomo su cui pende il sospetto – anche in assenza di un formale carico giudiziario – di aver ricevuto regalie da chi concorre nell´aggiudicazione di appalti pubblici, non può rimanere alla presidenza del Consiglio. Lo ha fatto rapidamente consapevole del fatto che la sua “squadra” si è presentata in Parlamento e al Paese sotto le insegne della sobrietà e della trasparenza. Evidentemente il presidente del Consiglio si è accorto che quell´ombra era così pesante da penalizzare l´intera attività del suo governo. L´avrebbe resa meno legittimata davanti alla composita e multiforme maggioranza. Soprattutto sarebbe stato meno credibile davanti ad un´opinione pubblica che reclama un´inversione di marcia negli usi e nei costumi della politica. Aver separato il suo destino da quello del sottosegretario Malinconico, rappresenta anche un modo per garantire una navigazione meno turbolenta ad una scialuppa già impegnata nelle tempesta della crisi economica europea. L´esecutivo “tecnico” quindi ha compiuto una scelta pienamente “politica” per superare la prima, vera grana.
Eppure un interrogativo resta. Come mai la vicenda che sta avvolgendo in questi giorni Carlo Malinconico non è stata valutata nella sua gravità già in occasione della nascita del governo? Monti ha giurato il 16 novembre scorso, quando le telefonate di due imprenditori come Balducci e Piscicelli erano note da tempo. Repubblica le aveva ampiamente pubblicate il 12 febbraio 2010. E tutti – sicuramente anche il Professore – erano a conoscenza delle inchieste che avevano toccato via via ex ministri come Scajola e Lunardi, o sottosegretari come Bertolaso. Quell´area grigia che ha avvolto una parte di appalti pubblici era stata denunciata con dovizia di particolari. Palazzo Chigi ha informato la sua azione alla sobrietà e alla trasparenza. Principi sacrosanti che con ogni probabilità cambieranno le abitudini e gli atteggiamenti della “politica” nel prossimo futuro. Ma la sobrietà e la trasparenza sono anche un vincolo. «Per avere piena conoscenza degli affari di Stato – ammoniva Norberto Bobbio – è necessario che il potere agisca in pubblico». Esiste un obbligo della trasparenza che non può essere ignorato. E nel caso di Malinconico quell´obbligo poteva essere facilmente adempiuto. Anche quando ricopriva ruoli di vertice alla Fieg. Per lo stesso motivo, gli uomini di Palazzo Chigi mantengano rapidamente una delle promesse fatte al momento dell´insediamento: rendano pubblici i redditi e soprattutto le situazioni patrimoniali di ogni membro del governo.
Il presidente del Consiglio, dunque, ha agito correttamente separando la sorte del sottosegretario dalla sua, ma ora deve riflettere sul rischio che il mancato controllo effettuato meno di due mesi fa possa rivelarsi più ampio. Esistono altri “casi Malinconico” nell´esecutivo? Esiste una zona opaca che potenzialmente può avviluppare la sua squadra? Esiste ancora la possibilità per qualcuno di godere di quello stesso sistema di garanzie che ha accompagnato per alcuni anni l´assegnazione di appalti pubblici? Quesiti che la nuova classe dirigente di questo Paese deve porsi. Per allontanare ogni sospetto e per ribadire una nota distintiva della sua opera in questi due mesi: la sostanziale discontinuità di forme, modi e contenuti. Per evitare che qualcuno possa ancora dire che «il fascismo era una democrazia minore» senza subire una generale e immediata contestazione. Per impedire che ogni stortura e patologia del sistema venga nuovamente metabolizzata e derubricata a chiassoso folclore. Perché, come avvertiva solo pochi anni fa l´allora presidente della Repubblica, Carlo Azeglio Ciampi, «in Italia vogliamo una democrazia più trasparente».
La Repubblica 11.01.12