attualità, economia, politica italiana

«Capitalismo in crisi. Dovranno salvarlo le sinistre europee», intervista a Giuliano Amato di Federica Fantozzi

Nel settembre del 1992 l’Italia era in una crisi drammatica. Giuliano Amato, da presidente del Consiglio, varò una manovra di entità tale 90 mila miliardi di lire da permetterci il primo avvicinamento ai parametri di Maastricht, e dunque di avviare il percorso per l’ingresso nell’euro. Scoppiarono polemiche furiose, a cominciare da quella sul prelievo forzoso sui conti correnti. Si capì però che l’Italia era salva. Lo è rimasta per vent’anni ma ora vive un altro momento critico.
Che differenze vede tra la crisi di allora e quella di oggi?
«Dal punto di vista del riaggiustamento finanziario interno, quando c’è un debito pubblico troppo alto e ci sono titoli di Stato senza compratori le esigenze di pareggio dei conti si somigliano tutte. Ma questa crisi va molto al di là dell’Italia. Presenta variabili più grandi di noi». Affrontabili in qualche modo?
«Con un linguaggio vecchio direi: dove sta andando il capitalismo? Cosa gli succede? Sembra aver perso la bussola del funzionamento, le sue dinamiche vengono messe in discussione. Le diseguaglianze gigantesche che crea lo privano della legittimazione sociale che gli è necessaria».
Da tempo si dibatte sui difetti del capitalismo, ma non si è mai trovata un’alternativa valida.
«Questa non è la prima crisi a porre simili interrogativi: successe anche negli anni ’20. E infatti io non credo che cadrà il capitalismo, ma che si impongano esigenze di profondo rinnovamento proprio come negli anni ’30. Qualcuno ha scritto che il capitalismo, vivendo di profondi squilibri, ogni qualche decennio esce di carreggiata e servono dei correttivi».
Quali correttivi vedrebbe in questo inizio di millennio?
«Secondo me dobbiamo prima chiederci se siamo pronti a misurarci con questo problema. È un fatto che uno storico come Giuseppe Berta chiede su Il Mulino alla sinistra italiana ed europea se stia cercando risposte a questo cruciale interrogativo».
Significa che la sinistra italiana e quella europea non hanno la percezione che l’Italia e l’Europa, se non il mondo, stanno andando a sbattere?
«Significa che si muove su un orizzonte più basso di quello. È attenta a tutelare gli interessi che rappresenta, agli ammortizzatori sociali, all’equità dei sacrifici chiesti. Cose essenziali, sia chiaro. Ma rimettere in carreggiata la macchina esige una riflessione di più alto livello che spero cominci. Fra l’altro i partiti socialisti e di centrosinistra sono forse attesi alla prova di governo in Francia, in Germania e in Italia».
Le sinistre si attardano su pensioni, articolo 18, cassa integrazione, mentre il mondo si capovolge?
«Non dico che difendano troppo il passato, ma che non sanno vedere il futuro. E questa impossibilità le induce a un atteggiamento difensivo. Forse tornare a Marx è troppo, ma fermarsi agli ammortizzatori sociali è troppo poco».
Qualche suggerimento?
«Disponiamo di cervelli e di una accumulazione culturale sufficienti per elevare il livello dell’analisi. Sul merito, mi limito a ricordare che il capitalismo ha ripreso a funzionare quando è riuscito a ristabilire insieme capacità di sviluppo e di coesione sociale». Insomma, i tempi sono maturi per un nuovo patto sociale? Nuove forme di distribuzione del reddito?
«Sì, serve un diverso patto sociale, che peraltro non si può più stipulare entro i confini nazionali. E questo è parte cospicua del nuovo problema che abbiamo di fronte».
Siamo alla vigilia di un nuovo Trattato europeo. È l’ultima chiamata per l’Ue? Che prospettive vede?
«È possibile che da questo tormentato lavorio esca un’Europa più forte e integrata con un Regno Unito più distanziato dall’eurozona. La difesa della stabilità dell’euro in crisi ha reso ineludibile una maggiore integrazione fiscale. È questo l’accordo intergovernativo di cui si discute. Ma l’integrazione fiscale è a sua volta insostenibile senza un’adeguata integrazione politica. È il percorso che si intravede».
Integrazione fiscale e politica con Londra solo moderatamente euroscettica. Non è troppo ottimista?
«La questione che pesa sulle nostre teste come un macigno riguarda i tempi. L’Europa storicamente si muove a passo di mesi se non anni, ma questa crisi non ce lo consente. Tutti abbiamo in testa una domanda: ce la faremo? Ebbene, il sì dipende dai tempi che ci metteremo».
L’euro ce la farà?
«La moneta unica e il suo futuro dipendono dalla nostra tempestività. Io sono abbastanza fiducioso. Siamo vicini all’accordo sulla disciplina fiscale a cui tiene tanto la Merkel. A quel punto saremo in condizione di chiedere alla Germania, che non potrà rifiutare, un impegno solidale comune per la crescita dell’eurozona». Lei è un sostenitore storico della Tobin Tax. Ma se Sarkozy la applica e Cameron no?
«Monti è consapevole delle difficoltà. Se Cameron dice no si crea un bel problema. Merkel e Sarkozy ritengono che si convincerà. Ma io non ne sono affatto convinto».
La manovra del governo Monti è alle spalle ma gli effetti stanno arrivando. Il rigore c’è. L’equità sociale?
«Ho detto ai miei amici nel governo che avrei cominciato subito toccando in modo significativo redditi e pensioni alte. Fui il primo a introdurre il contributo solidale sulle pensioni alte: ora era giusto ripristinarlo e accentuarlo. L’abbrivio della manovra aveva suscitato molte critiche, poi alzando la soglia delle pensioni non indicizzate, si è raddrizzata la rotta».
Nessun altra critica?
«C’è stata una reazione negativa per l’aumento delle accise, benzina in particolare. Monti con signorilità se lo è accollato. Ma bisogna dire la verità: è stata una richiesta delle Regioni per finanziare il trasporto locale».
Il blitz del fisco a Cortina: demagogia o choc salutare per il Paese?
«Trovo giusta l’operazione in sé. Se ci vai quando non c’è nessuno sprechi solo tempo. Ma è stato opportuno non rendere pubblici casi singoli. È giusto perseguire chi danneggia il bene comune, ma bisogna evitare la sensazione che siamo tornati all’uso della gogna, di cui c’è gran voglia in questi tempi inquieti, ma che non appartiene ai metodi democratici». Secondo lei, la cosiddetta Seconda Repubblica è giunta alla fine? E sarebbe opportuno intervenire durante la fase Monti per ridisegnare un ordine istituzionale?
«A mio avviso è essenziale cambiare la legge elettorale a prescindere dal responso della Corte Costituzionale. Mentre lavorare sul ruolo del capo dello Stato perché ampliato in una fase di crisi sarebbe sbagliato e dimostrerebbe scarsa comprensione delle dinamiche del governo parlamentare in tempo di crisi».
Insomma, non c’è un presidenzialismo strisciante?
«È una lettura sbagliata. Ne ho viste tante in questo periodo».

L’Unità 10.01.12