C’è da pensare che chi ha avuto, laggiù in Cile, questa bella pensata, di far grazia alla memoria di Pinochet, tentando di sostituire «dittatura» con una più pudica parola, «regime», non conosca nulla dell’ironia con la quale Manzoni fingeva di raccontare ai suoi 25 lettori che è «cosa evidente, e da verun negata, non essere i nomi se non purissimi accidenti». Sappiamo bene che le parole sono invece pietre, e che la loro scelta, la loro selezione, determinano assai più d’un astratto e inoffensivo «accidente»: creano realtà, conoscenza, identità.
L’ipocrisia è la veste da camera della politica, addobba ciò che non si deve vedere, lo adorna, ne nasconde le brutture e le miserie. Almeno, in pubblico. Quando, nel silenzio ovattato dello Studio Ovale, il consigliere diplomatico comunicò al presidente Roosevelt che in Nicaragua i militari avevano appena fatto un colpo di Stato, e che quella era proprio una brutta storia perché a prendersi il potere era stato un lercio figuro, un trafficone che in pochi anni era passato da sergente a generale, insomma un autentico figlio di puttana, Roosevelt perse la pazienza per quel panegirico troppo malato di etica e di morale, e battendo il pugno sul tavolo che aveva davanti sbottò: «Sarà pure un figlio di puttana, ma si ricordi che è comunque il “nostro” figlio di puttana». Questo, però, nel chiuso della Casa Bianca.
La politica coltiva i suoi «sons of a bitch», a ogni latitudine. E se la spregiudicatezza con la quale per larga parte del secolo passato Washington sollecitò, approvò, e resse, tutte le dittature che s’impiantavano a sud del Rio Bravo, dal cortile di casa del Centro America fin giù ai generali che, dalle parti di Baires, di Santiago, e di Montevideo, torturavano e ammazzavano a man bassa nel nome di Cristo e della Civiltà Occidentale, non molto di diverso, poi, è accaduto dalle nostre parti, dove soltanto di recente ci si è accorti che nel mondo arabo tutti i nostri «alleati», che per decenni avevamo coccolato per i buoni affari che ci consentivano di fare spartendo con noi i proventi d’ogni investimento, in realtà erano autentici «sons of a bitch», chi più chi meno, certamente, ma tutti della stessa categoria.
L’operazione di pulizia d’un passato disonorevole è stata tentata molte volte, in America Latina, sostenuta da trasformazioni politiche che hanno sì mutato le istituzioni ma hanno anche faticato a impiantare una cultura della democrazia. Il processo del cambio si è attenuato tra le ragioni della «memoria» e quelle dell’«olvìdo», tra la conservazione della conoscenza e l’inevitabile tentazione dell’oblio. In Argentina si è andati avanti per anni con un amaro pendolo che oscillava tra leggi di amnistia e riaffermazione del diritto; così in Uruguay, e in Cile. Alla fine le ragioni del diritto hanno saputo affermarsi, pur con qualche titubanza; ma l’operazione che si sta tentando ora a Santiago è diversa: si è passati dal parziale recupero d’approvazione delle leggi economiche di Pinochet – tentando di innestare un nuovo «accidente», la definizione semi-assolutoria di dicta/blanda al posto della dicta/dura – per arrivare ora a proporre, del tutto, la cancellazione della identità politica di quel tristo periodo che va dal ‘73 al ‘90.
Voler abolire per legge la specificità della «dittatura», trasferendola verso l’ambiguità del «regime», è un progetto che mira a cancellare l’identità d’una azione politica basata sulla violenza e sulla soppressione della libertà, per sostituirla con una più generica e anonima struttura nominale dell’esercizio del potere pubblico. Il 40 per cento dei cileni ha meno di 25 anni, ha dunque vissuto ogni giorno della propria vita – fin dall’atto stesso della nascita – in un tempo nel quale la dicta/dura era soltanto passato, storia, talvolta anche cronaca; a conservarne la memoria c’erano quelle lapidi grigie e quei nomi che stanno a pochi passi dal cancello d’ingresso del cimitero di Santiago ma, soprattutto, c’era un vissuto concreto, forte, reale, di larga parte del Paese, quale che fosse la scelta politica che questo avesse fatto.
Oggi questa memoria di carne si è fatta meno forte, il progetto del ministro Beyer vuole cancellarlo; poi, forse, potrebbe venire il tempo per cancellare quei nomi e quelle lapidi grigie che stanno a pochi passi dal cancello del cimitero. Ancora oggi c’è sempre qualcuno che va a pulirle, a toglierli il velo di polvere, a bagnare qualche raro fiore portato senza nome: ma sono vecchi uomini e vecchie donne. Beyer osserva da lontano, e aspetta.
La Stampa 07.01.12