Facile dire lavoro. Che quella occupazionale sia una vera emergenza ce lo dicono le cronache di tutti i giorni (quelle che raccontano delle proteste) e le statistiche, ufficiali e non. Se nel calcolo della disoccupazione si tiene conto degli operai in cassa integrazione a zero ore l’indice schizza dall’8,5 ufficiale al 13 per cento. La crisi non solo è drammatica ma ormai è conclamata. Le ricette per affrontarla, però, sono tutt’altro che chiare. Anzi, l’impressione è che le due agende, quella del governo e quella dei sindacati, proprio non coincidano. L’esecutivo, quando parla di lavoro, pensa essenzialmente alle regole, alla riforma dei contratti, «senza escludere nulla» e «senza pregiudizi», come hanno ripetuto negli ultimi giorni sia il presidente del Consiglio sia il ministro del Lavoro.
La questione articolo 18, o se vogliamo, nella sua traduzione più comune, il tema della libertà di licenziare, dopo le polemiche di fine anno, non è formalmente sul tavolo.
Ma il punto, per l’esecutivo, è – e resta – sempre quello: creare le migliori condizioni per le imprese, semplificare le procedure e metterle nelle condizioni di assumere più facilmente. Certo, si parla anche di nuovi ammortizzatori, ma finora l’enfasi è sempre stata messa sul primo tema. E comunque, molto pragmaticamente, il ministro Fornero fa anche sapere che «tesori nascosti» per finanziare nuovi interventi non ce ne sono e che il governo può eventualmente scrivere nuove regole, ma non può certamente creare dal nulla nuovi posti.
Di contro i sindacati puntano ad altro. Parlano sempre di lavoro, ma chiedono un piano complessivo. Pensano ad un grande patto governo-parti sociali dove la questione delle regole può essere solo uno dei temi di discussione, non certo quello centrale. Pensano innanzitutto ai soldi. Sollecitano nuovi ammortizzatori, e poi chiedono – legittimamente dal loro punto di vista – interventi per ridurre la precarietà. Ovvero maggiori protezioni, che non è la stessa cosa delle semplificazioni che potrebbero essere introdotte con un ipotetico «contratto unico» o «contratto prevalente» che sia.
A parole il ministro Fornero, sin dalla sua prima dichiarazione pubblica, a Torino due giorni dopo l’insediamento del nuovo governo, prendendo spunto dalle vicende Fiat, aveva detto di volersi schierare assolutamente dalla parte dei lavoratori. E questa è la linea che intende seguire nella partita che sta per aprirsi ora. Il messaggio, però, non sembra sia stato colto a pieno dai sindacati che il primo dell’anno hanno rilanciato con molta forza l’allarme lavoro. E che ora pressano Monti e c. per interventi rapidi in grado di tamponare la crisi.
La questione-tempo è certamente condivisa da Monti, che però, in questo schema di convergenze divergenti, la legge tutta a suo modo: massima disponibilità al dialogo «pur nell’esigenza di operare con la sollecitazione imposta dalla situazione». Che nella traduzione data da osservatori e stampa è diventata: vediamoci, ma al Consiglio dei ministri del 20 gennaio, in vista dell’Eurogruppo del 23, io dovrò comunque portare un primo abbozzo di misure. Tempi certamente troppo stretti per i sindacati, abituati a ben altre liturgie, ma – ad onor del vero – troppo stretti anche per produrre una riforma che abbia un minino di senso compiuto.
La strada, insomma, è in salita. Ed i rischi di ulteriore innalzamento dei toni e dello scontro sono destinati ad aumentare. Se poi, come è dovuto, il confronto si allarga a tutte le parti sociali, a cominciare da Confindustria (che vorrebbe più flessibilità ma non vuol rompere con la Cgil, che soffre l’articolo 18 ma vorrebbe intervenire anche sul 30 relativo ai poteri dell’imprenditore), la partita rischia di complicarsi ancora di più. Perché a questo punto le agende che finiscono per non collimare rischiano di essere addirittura tre.
La Stampa 03.01.12