Austerità per le forze armate ma la provenienza del ministro-ammiraglio non lo aiuta. «Non si fanno le nozze coi fichi secchi. La strada è ineludibile, piaccia o no. Con questo governo o un altro, non c’è alternativa… Bisogna ridimensionare lo strumento militare, non serve Napoleone per capirlo. Ma i tagli li dovremo fare nel modo e nei tempi giusti». Lo fanno in tutta Europa, tocca anche a noi. Sì, ma quali tagli e con che tempi? Sotto sotto, c’è chi accusa Giampaolo Di Paola di voler usare l’arma dei tagli alla difesa per ristrutturare le forze armate piegandole all’idea di strumento militare che lui ritiene da sempre più congeniale all’Italia: una forza essenzialmente aeronavale, facendo pagare il prezzo dei sacrifici più alto agli investimenti tecnologici per le forze terresti, cioè all’esercito.
Un’accusa ingenerosa, sebbene ci sia il fondato sospetto che l’ammiraglio Di Paola capo di stato maggiore della difesa dal 2004 al 2008, poi presidente del comitato militare Nato fino alla nomina a ministro della difesa, sia affezionatissimo al progetto Joint Strike Fighter o F-35 dell’americana Lockheed, (18,1 miliardi di euro di spesa entro il 2018) soprattutto per quella versione B short take off a decollo corto indicata per la portaerei Cavour, di cui lui è considerato il vero «padre-padrino».
Per non parlare delle dieci fregate Fremm (anti-som e multiruolo) da 6 miliardi costruite da un consorzio italo-francese targato Finmeccanica-Fincantieri per la parte italiana: «Le nostre commesse non sono decisive per la sopravvivenza di Fincantieri, ma in questo momento di crisi l’idea di tagliarle…», non è un’idea particolarmente illuminata, si ragiona in ambienti della difesa.
Il tema degli investimenti dunque: ma la partita dei tagli alla difesa, che comprende anche questo controverso capitolo, è più complicata, perché riguarda – nelle intenzioni del ministro – anche dure sforbiciate al personale militare (dell’ordine di 40mila unità) per ridurre il dispositivo a 150mila militari (oggi sono 180.207), rispetto al modello post-naja che ne prevedeva 190mila. Il costo del personale, 62% del bilancio della difesa, è di 23 miliardi all’anno: Di Paola pensa di poterne tagliare, con gradualità, almeno 7. Qui si concentra l’attenzione del ministro che però si scontra con alcune dure criticità. L’idea dell’ammiraglio è puntare sulla mobilità nell’ambito della pubblica amministrazione, poiché la riforma pensionistica allunga i tempi di uscita della gran massa dei cinquantenni (l’ondata dei 56mila marescialli che sommati ai 15mila sergenti arriva a quota 72mila, quasi quanto la truppa di 83mila uomini e donne) il cui picco sarebbe dovuto scendere tra il 2022 e il 2024. Ma spostare il costo di un maresciallo (25mila euro annui) dalla difesa ad altro ministero conviene? Per il tesoro non cambia nulla: e i 25mila euro di risparmio, poi, verrebbero utilizzati dalla difesa per investimenti o sarebbero perduti tout court? Nessuno l’ha ancora capito. E se è per questo, ancora non si sa neppure quali investimenti saranno tagliati dopo la sforbiciata di 2,9 miliardi alla difesa tra il 2010 e il 2012. Gli interrogativi sul personale (attenti al “marchionnismo”, si dice tra i Cocer, la difesa non è un’azienda privata) non sono meno complessi di quelli sugli investimenti. Si può mollare il programma Jsf e recuperare il tempo perduto per l’industria europea, con un cacciabombardiere Eurofighter Typhoon di quinta generazione? Materie complesse. I militari, si sa, tendono all’autoreferenzialità. Ma a maggior ragione sotto un governo tecnico sarebbe opportuno che la politica ragionasse sul nostro modello di difesa in un quadro d’integrazione europea, ciascun paese secondo le proprie vocazioni storiche e geo-politiche.
Il Pd ha recentemente proposto l’istituzione di una commissione bicamerale e il confronto, anzitutto tra i partiti che sostengono Monti, potrebbe svilupparsi anche lì. Se non ora e sul tema della difesa nazionale, quando e su che cos’altro?
da Europa Quotidiano 03.01.12