Risanamento, crescita e giustizia, sono i tre imperativi richiamati da Giorgio Napolitano al governo Monti la sera di san Silvestro. E ai sindacati il dovere di restare fedeli alla loro storia di difensori della democrazia, ai partiti il dovere di ritrovare la politica, per adeguare lo stato, le istituzioni, gli apparati e garantire governi in fruttuosa alternanza, che trovino nella competizione oltre che nel dovere gli stimoli per ricostruire la morale civile, pensare alla parte più povera della società, tagliare le spese parassitarie, ricondurre riottosi e corporazioni sotto la legge, sviluppare le prospettive delle imprese sane, dare lavoro ai giovani alle donne e agli espulsi dalla produzione.
Salvare l’Italia in Europa e l’Europa dalle sue turbe ereditarie modello ungherese e da nuovi egoismi, guarire e rimettere in corsa quell’Italia positiva che il presidente ha incontrato, nell’annus horribilis 2011, ripercorrendo i 150 dell’unità nazionale, accolto dovunque da folle di buona volontà che con lui hanno ritrovato orgoglio e speranza.
Ascoltandolo, ricordavo che nell’ampia pubblicistica in vista del centocinquantenario, ci sono stati studiosi che hanno ricercato ancora una volta L’identità italiana (Galli della Loggia) partendo dalle stesse coordinate geografiche della penisola, centro d’Europa all’incrocio tra la via che unisce il blocco francoiberico e le pianure dell’Est, e la via breve o brevissima tra il forte Nord atlantico e la sponda mediterranea dell’Africa e del Levante. Nasce dalla crisi politica e istituzionale di quell’incrocio la remota ma ancora virulenta decadenza che in millecinquecento anni senza patria ha cronicizzato nella penisola l’omologazione del problema politico-statuale a una vera e propria “questione morale”. Nessuna meraviglia se l’Italia sia stata un agglomerato senza popolo e un paese senza stato.
Nessuna meraviglia se all’inizio della peregrinazione presidenziale del 2011, si stampavano raccolte come Scusi, lei si sente italiano? dove Malaparte rispondeva: «Non so che farmene di una patria che non sopporta la verità»; e Flaiano: «Per molti l’Italia non è una nazionalità ma una professione»; mentre Montanelli si spingeva fino alla totale identificazione: «Quel poco che sono, sento di esserlo come italiano»; e Berselli consigliava la via mediana fra le Italie (al plurale, come cantavano nel ’500 i conquistatori francesi di Carlo VIII): «Conviene sceglierne un paio decenti, e limitare l’orgoglio a quelle». Paese difficile, politica difficile.
Perciò, quando la tv ha calato il sipario sulla scena familiare del presidente senza retorica e senza orpelli, che in ventuno minuti ci aveva spiegato passato presente e futuro del paese senza sforzi mentali per gli ascoltatori, abbiamo avuto la sensazione che, al di là della tavola apparecchiata, si materializzassero, uno affianco all’altro negli scaffali, opere come Una e indivisibile, raccolta degli sforzi di Napolitano sulle capacità degli italiani, sulle loro risorse umane, di intelligenza e di lavoro, necessarie a superare «prove più che mai ardue, profonde e di esito incerto»; e quelle sulla coscienza liberale dello stato, Lo scrittoio del Presidente e Prediche inutili di Luigi Einaudi. Dove “inutili” in parte sta per non lette, in parte inascoltate, in parte dimenticate, ma instancabilmente ripetute e da ripetere agli uomini di buona volontà: quali del resto furono “la minoranza eroica” del Risorgimento e della Resistenza, l’“Italia di minoranza” che fece lo stato, ma anche la stragrande maggioranza operosa della ricostruzione. Parole, direbbe l’inventore della porcata.
Ma costui sa cosa significano e cosa fanno le parole? Per esempio, quelle del Discorso del Re e quelle del Mein Kampf? Sono stati bravi gli studiosi che alla vigilia di san Silvestro, commentando alla Sapienza il saggio di Napolitano, vi avevano colto l’intreccio tra il linguaggio della politica e quello della storia: la “storia comune”, senza irenismi, di cui aveva parlato Pietro Scoppola. Unico linguaggio per andare al profondo del problema: cioè al divorzio tra politica e cultura, che da qualche decennio stravolge il necessario ripensamento dell’idea di Nazione.
Che nell’età della globalizzazione non è più, forse – dice Galasso – «il plebiscito di ogni giorno» come l’aveva inteso Renan, ma in nessun caso può essere il ritorno al Medio evo della vallata alpina, della rocca appenninica, della contea imperiale o vescovile e della sua economia curtense: le mille piccole patrie di un volgo disperso che nome non ha. Il messaggio di Napolitano, che ha reso semplice e naturale quest’intreccio di linguaggi, ha aperto proprio con esso le finestre sul presente e sul futuro.
Sacrifici non brevi, che solo la giustizia e l’equità potranno rendere accettabili Napolitano l’ha ricordato al governo Monti, all’Europa, ai partiti, ai responsabili d’ogni settore della vita pubblica ed economica, ai sindacati: per un verso richiamando precedenti prove, superate dagli italiani con la coesione nazionale, come quella del 1978, col cadavere di Moro gettato in faccia ai Palazzi della politica, anche allora latitante, e con l’inflazione al 20 per cento, che devastava milioni di famiglie a reddito fisso; così come oggi le devastano i delinquenti che in poche settimane hanno trafugato all’estero 11 miliardi di euro, degno compimento di una stagione, la loro, di ignominie morali, fughe dalla giustizia, abbandono del governo agli immeritevoli, disuguaglianze sociali enormi a favore delle caste, debito sovrano in ulteriore crescita, disoccupazione e inoccupazione, e addirittura rinuncia all’idea stessa di un lavoro da parte di milioni di giovani e donne.
Per un altro verso, il presidente è parso sollecitare scadenze al dovere del governo di fare le cose che ora i cittadini aspettano, dopo aver accolto con disciplina, quasi di guerra, i sacrifici richiesti. Così già ieri i giornali intitolavano sui due nodi cruciali che il governo dovrà affrontare ad horas: il lavoro e la spesa. Si parla di 25 mila voci e dieci tipologie di inefficienze, con tagli per 5 miliardi di euro; si parla di allarme dei sindacati per altre decine di migliaia di posti a rischio; si preannunciano incontri “rapidi e concreti” del governo coi singoli sindacati, per trattare sul lavoro.
Non anche sulle altre questioni economiche, che spettano al governo.
Così si comincia anche a ripristinare le sfere di competenza, in uno stato che voglia tornare interamente alla Costituzione e alla concretezza.
E si eviteranno le “parole magiche” e gli “scatoloni vuoti”, che Einaudi denunciava negli anni Cinquanta, e si tornerà per tutti a quella severità che la breve stagione di Padoa Schioppa ci aveva lasciato intravedere e che Napolitano ha rilanciato, senza complessi verso quegli stessi “compagni” che deplorano il suo linguaggio come “liberale”.
Quasi che, in origine, liberale non fosse sinonimo di rivoluzione.
E quasi che, in un’Italia abbandonata da decenni al malgoverno della non politica, lasciando crescere le erbacce velenose dell’egoismo e dell’illegalità, non ci fosse bisogno proprio di una rivoluzione. Che in Occidente, cari compagni, chiamerebbero liberal, guarda un po’.
da Europa QUotidiano 03.01.12
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“Il messaggio del presidente al Pd”, di Rudy Francesco Calvo
Non è casuale che nel discorso di fine anno Napolitano abbia richiamato il suo passato di dirigente politico
Il rapporto tra Giorgio Napolitano e il Partito democratico ha vissuto nel tempo periodi più o meno favorevoli. In queste settimane, la principale preoccupazione che trapela dal Colle riguarda la tenuta del governo: il capo dello stato non perde occasione per rivendicare l’opportunità della scelta, da lui sostenuta con forza, del rinvio dello scontro elettorale, che avrebbe rappresentato al contrario «un azzardo pesante dal punto di vista dell’interesse generale del paese». Una visione, quella ribadita da Napolitano nel suo discorso di fine anno, che buona parte dei vertici del Pd non condivide, sostenendo piuttosto che l’incarico a Mario Monti sia stata una scelta (che loro pur sostengono), ma non era l’unica possibile per mettere in salvo il paese.
Anche per questo, il presidente non vede arrivare solo da destra i rischi per l’esecutivo: anzi, essendo in questa fase soprattutto la constituency del centrosinistra a soffrire gli effetti della manovra salva-Italia, la tentazione di staccare la spina potrebbe essere più forte in casa dem prima della prossima primavera, scadenza oltre la quale il passaggio elettorale diventa oggettivamente complicato.
Non è un caso, allora, che Napolitano abbia richiamato esplicitamente nel suo intervento a reti unificate la propria appartenenza a «una lontana, lunga esperienza politica concepita e vissuta nella vicinanza al mondo del lavoro». L’appello rivolto in prima battuta alla responsabilità dei sindacati, in vista delle «grandi prove che abbiamo davanti», non può non trovare orecchie attente anche al Nazareno. D’altra parte, anche in quel «terribile 1977» ricordato dal presidente, non fu solo la Cgil di Luciano Lama ad addossarsi sacrifici e responsabilità di fronte ai propri iscritti e lavoratori. Ad affiancare il sindacato nella strada della responsabilità e del dialogo, c’era il Pci di Enrico Berlinguer, ma anche di un Giorgio Amendola che proprio in quella fase vedeva affermarsi con più forza la propensione al governo e al dialogo del proprio partito, da lui sostenuta.
Un parallelismo che Napolitano non esplicita, ma che emerge dal medesimo contesto di crisi (stavolta solo economica, anche se i sindacati prefigurano anche conseguenze sul piano sociale), dal rinnovato rapporto tra Pd e Cgil e dal contestuale richiamo a tutti i partiti «per la ricerca di intese tra loro sul terreno di riforme istituzionali da tempo mature». Insieme alla necessità «di rinnovarsi e di assolvere alla funzione insostituibile che gli è propria di prospettare e perseguire soluzioni per i problemi di fondo del paese». Un richiamo che ricorda molto quello a favore di un’alternativa di centrosinistra «credibile, affidabile e praticabile », già pronunciato lo scorso maggio.
Il capo dello stato si era rivolto indirettamente ai Democratici anche attraverso la lettera pubblicata tra Natale e Capodanno dalla rivista Reset, in occasione del cinquantenario della morte di Luigi Einaudi.
Un’occasione colta da Napolitano per ricordare alle «forze riformiste » italiane ed europee «l’esigenza di perseguire nuovi equilibri, sul piano delle politiche economiche e sociali», riprendendo proprio dall’eredità del liberale Einaudi «riflessioni e stimoli fecondi». Secondo il presidente, «il recupero di simili approcci e contributi di pensiero ai fini di una revisione, di un adeguamento al nuovo contesto generale, della piattaforma programmatica e di governo delle forze riformiste, non può apparire né improprio né arduo».
Considerazioni che non hanno trovato un’accoglienza favorevole nella sinistra dem.
E, stando a indiscrezioni filtrate dal Nazareno, sembrerebbe che anche il discorso di fine anno del capo dello stato abbia innervosito qualche alto dirigente del Pd.
da Europa Quotidiano 03.01.12