Il Paese a cui si è rivolto il discorso del Presidente della Repubblica è attraversato da preoccupazioni e inquietudini grandi, come poche volte è capitato nel passato. Si avverte l’insidia di una crisi economica e finanziaria solo in parte ascrivibile alle responsabilità nazionali.
Una crisi su cui ora gravano il peso delle manovre di aggiustamento dei conti pubblici; la crescita dell’inflazione e la caduta dei redditi da lavoro e pensione; la lunghezza di un ciclo senza crescita economica e le previsioni di una ulteriore caduta dell’occupazione e dei consumi per l’anno che si apre.
Innanzitutto grava sull’Italia il rischio di perdere altri 150mila posti di lavoro, o forse anche di più, in tutti i settori dell’industria e dei servizi. Per questo il presidente, senza nascondere la gravita del momento, ha esortato il Paese ad avere fiducia rassicurando che i sacrifici serviranno a fare uscire dalla crisi di oggi sia l’Italia che l’Europa. E parole non diverse hanno usato la cancelliera tedesca e il presidente della Repubblica francese, il quale ha messo la questione sociale al centro del suo discorso di fine anno.
Il punto però che continua a restare aperto soprattutto in Europa, a differenza della situazione americana, è come evitare che le politiche di restrizione della domanda, degli investimenti e dei consumi che sono necessarie ma sono anche causa della recessione in corso, non determinino un aggravamento delle condizioni dell’occupazione, del lavoro e delle prospettive comuni. E visto che non si riesce a fare assumere a livello europeo quelle decisioni che sarebbero necessarie già da tempo a partire dagli Eurobond per gli investimenti diventa necessario affrontare il tema di come sia possibile, Paese per Paese, sostenere una politica anticlica nei tempi più brevi.
Il governo Monti è chiamato a questa sfida e solo in questa prospettiva le condizioni dell’equità e della coesione sociale possono essere ricomposte. Ancora una volta cioè il tema non è quello dell’accettare o meno i sacrifici, ma se i sacrifici e il rigore nella loro qualità sociale ed economica determinano o meno la possibilità di ottenere risultati concreti, che consentano anche al nostro Paese e anche nel tempo della globalizzazione dei mercati di riprendere la strada dello sviluppo e di una crescita fondata su una buona e stabile occupazione.
Qualche commentatore ha voluto leggere nel discorso del presidente Napolitano una isposta a osservazioni e critiche che i sindacati confederali hanno avanzato ad alcune misure prese dal governo in materia previdenziale, di equità sociale e fiscale e di metodo di confronto. Conoscendo il presidente questo rilievo non è fondato mentre è stato evidente il richiamo a una comune e condivisa responsabilità sociale. D’altra parte il sindacato italiano non si è mai sottratto a questo dovere anche quando ha dovuto accettare una politica dei due tempi o i sacrifici spesso sono stati a senso unico, se è vero come è vero che l’Italia è oggi tra i Paesi europei più diseguali per distribuzione della ricchezza. Il punto di oggi è però un altro: non si esce da questa crisi se non si cambia la qualità del nostro sistema produttivo, se non si torna ad investire e ad innovare, se non si offre lavoro di qualità e ben remunerato: se, insomma, non si troverà anche da noi quello che tanti giovani trovano in giro per l’Europa o per il mondo. Troppi luoghi comuni sbagliati continuano ad essere riproposti nel dibattito italiano dall’articolo 18 alle cause circa il deficit di produttività del sistema e troppe scelte di questi giorni sono improntate a continuità che andrebbero rimosse, come nel caso dell’aumento dei pedaggi autostradali o delle accise sui carburanti; per non parlare del fatto che ancora una volta invece di ridurre il carico fiscale sul lavoro lo si sia fatto solo a vantaggio dell’impresa, per quanto con modalità corrette. Questo è il respiro che deve avere una politica per la crescita e la buona occupazione. Questa la prospettiva che si deve dare a chi perde il lavoro in questi mesi o non lo trova se non in forma precaria. Questa la svolta di cui c’è bisogno se vogliamo lasciarci alle spalle un decennio di declino e di arretramento anche morale e culturale.
L’Unità 02.01.12
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“Lavoro, 300 mila posti in bilico”, di Marco Ventimiglia
Archiviato un 2011 drammatico per l’occupazione, è appena partito un anno che potrebbe essere persino peggio, con le conseguenze della recessione in corso che sono ancora tutte da verificare. E così, a riprova dell’eccezionalità del momento, già nel giorno di festa si è cominciato a far di conto, cercando di inquadrare il vastissimo fronte delle vertenze fin qui avviate, con i principali leader sindacali che hanno subito fatto sentire la loro voce. E purtroppo l’impressionante numero di tavoli aperti al ministero dello Sviluppo economico appare come una prima conferma delle fosche previsioni formulate a metà dicembre da Confindustria. Il Centro studi di Viale dell’Astronomia, a fronte di una contrazione del pil dell’1,6% nel 2012 (cui dovrebbe seguire una mini ripresa dello 0,6% nell’anno successivo), ha infatti quantificato in 219mila le persone che perderanno il posto di lavoro nel biennio 2012-2013, il che porterebbe il conto totale dei nuovi disoccupati a 800mila da quando, era la metà del 2008, è iniziata la crisi globale tuttora in atto.
I SETTORI IN BILICO Quanto avvenuto negli ultimi mesi al ministero avvalora, come detto, le stime confindustriali. Sono circa 230 i tavoli aperti per cercare una soluzione alle molteplici crisi aziendali in corso. Un’emergenza che vede coinvolti 300mila dipendenti, con rischi occupazionali più immediati per 40mila persone. Quest’ultime lavorano per lo più nelle aziende che hanno in atto le trattative più serrate, circa un centinaio, mentre i settori più colpiti sono quello dei trasporti, del tessile, delle telecomunicazioni, senza naturalmente dimenticare l’auto che viene monitorata da vicino poiché la situazione è preoccupante non soltanto in Italia. Ad aggravare la situazione, poi, c’è il deterioramento del quadro economico generale che trasforma la perdita del posto in un dramma senza rimedio. Il mercato del lavoro non dà alcun segno di ripresa, ed a pesare sulle aziende italiane è il sempre più difficile accesso al credito, il cronico ritardo nei pagamenti da parte della pubblica amministrazione, nonché la crescente difficoltà a rimanere competitivi di fronte alla concorrenza internazionale. Il panorama delle vertenze appare quanto mai composito, a riprova dell’importanza e della globalità della crisi. Al centro dell’attenzione ci sono inevitabilmente i grandi gruppi come Fincantieri, l’ormai ex fabbrica Fiat di Termini Imerese e un altro pezzo del Lingotto, lo stabilimento Irisbus. E fra i tavoli che ripartiranno al ministero già in questi primi giorni di gennaio, ci sono quello dell’Omsa di Faenza, con 239 donne che rischiano la disoccupazione a marzo, e quelli per Agile ed Eutelia, due aziende in amministrazione straordinaria con un grave problema occupazionale da gestire visto che soltanto per la prima si parla di 1.350 dipendenti in bilico. E preoccupazione c’è anche per la Lucchini di Piombino, con 3mila dipendenti nel settore siderurgico, mentre un altro comparto in crisi è quello della chimica, con il polo di Terni fra quelli in difficoltà.
L’EMERGENZA MERIDIONE L’attenzione della cronaca si è concentrata negli ultimi giorni sulla clamorosa protesta dei tre dipendenti diWagonsLits, da quasi un mese sulla torre faro della Stazione centrale di Milano per protestare contro i 539 licenziamenti. E un altro settore molto difficile è quello delle telecomunicazioni. «Alcatel – sottolineano al ministero – ha annunciato un nuovo taglio di organico pesante, Nokia-Siemens ha ridotto tutte le attività produttive e di ricerca, Italtel è in difficoltà». Naturalmente un altro aspetto da tener presente è quello geografico. Al dicastero dello Sviluppo economico si evidenzia «il cronicizzarsi di situazioni di crisi nel Sud, alcune delle quali molto compromesse ». Fra queste, l’ex polo elettronico di Caserta piuttosto che il settore ferroviario con le vertenze di Firema e Ansaldo Breda.❖
L’Unità 02.01.12
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Lavoro, allarme dei sindacati “Si rischiano tensioni sociali dal governo subito un piano”, di Luisa Grion
In pericolo 30-40 mila posti. Bagnasco: serve coesione
Bisogna far ripartire l´economia e varare un piano che riaccenda l´occupazione perché – senza interventi immediati – la carenza di lavoro e la scarsità di reddito, nei prossimi mesi, potranno far esplodere la tensione sociale. Per i sindacati è questa la prima emergenza del Paese, il punto numero uno che il governo deve mettere in agenda per il nuovo anno. Lo hanno detto ieri i tre leader di Cgil, Cisl e Uil e lo dicono anche i numeri.
Sul tavolo del ministero dello Sviluppo economico ci sono infatti 230 casi di crisi aziendali in attesa di soluzione: interessano, compreso l´indotto, 300 mila lavoratori e mettono in pericolo, nel breve periodo, 30-40 mila posti. La cifra totale «non coincide assolutamente con il numero dei posti di lavoro a rischio» tiene a precisare il ministero, ma certo il quadro di partenza è complesso. Le vertenze aperte riguardano infatti una bella fetta dell´industria italiana: da Fincantieri a Irisbus, dalla Lucchini di Piombino alla veneziana Pansac, dall´Ansaldo Breda agli stabilimenti Fiat (situazione monitorata, ma sulla quale non c´è un vero e proprio tavolo). C´è tutto il polo chimico, il polo tessile del beneventano e in generale le aziende che hanno pochi sbocchi sul mercato internazionale.
Un quadro ampio e critico che ha fatto scattare l´allarme dei sindacati. Susanna Camusso, leader della Cgil, lancia un messaggio chiaro: «Nei prossimi mesi – avverte – c´è il rischio di tensioni sociali crescenti: la recessione avrà un impatto duro su occupazione e redditi». Bisogna contrastarla «con un piano per il lavoro» perché «il rischio che cresca il conflitto man mano che cresce la diseguaglianza è reale». La Cgil, dunque, sul tema ha una visione diversa da quella espressa da Palazzo Chigi (il premier Monti, nell´ultima conferenza stampa, si era detto sicuro «che il Paese ci capisce e non ci saranno grandi tensioni sociali»). La Camusso, invece, apprezza il richiamo all´unità e alla coesione fatto dal presidente della Repubblica Napolitano nel messaggio di fine anno, ma chiede al governo «più coraggio». «Il mercato non basta, serve strategia e politica. Il professor Monti è disponibile a condividere strategie e politiche? Se lo è noi faremo la nostra parte».
Una linea, quella del piano condiviso, sulla quale è d´accordo anche la Cisl di Raffaele Bonanni . Il fatto che nei prossimi mesi possano aumentare o meno le tensioni «dipenderà solo dal comportamento del governo – precisa il leader sindacale – noi volgiamo una concertazione vera su tutti i temi economici e sociali». Ma «la necessaria rapidità delle decisioni non può divenire un alibi per evitare il confronto con il sindacato. Non accetteremo pacchetti preconfezionati o ispirati da altri». «Le regole calate dall´alto – avverte anche il leader della Uil Luigi Angeletti – fanno poca strada. E l´aumento della disoccupazione non è un antidoto alla pace sociale, anzi è benzina sul fuoco: questo è il problema sul quale concentrarsi».
Ma non è solo il sindacato a preoccuparsi del clima dei prossimi mesi, sul tema è ritornato ieri anche il cardinale Angelo Bagnasco, arcivescovo di Genova e presidente della Cei. «Dobbiamo creare più coesione ed essere tutti più positivi – ha detto – A forza di seminare vento si raccoglie tempesta. Si tratta della tempesta della sfiducia, del tutti contro tutti, dell´avvilimento, della litigiosità esasperata e inconcludente, della rabbia sorda, ma che potrebbe scoppiare. Il clima di sospetto degli uni contro gli altri non conduce da nessuna parte».
La Repubblica 02.01.12