«Con un Parlamento delegittimato occorre un governo di tecnici affidato a Mario Monti». Indovinello: chi l’ha detto? Bersani? Nooo! Casini? Nooo! Fini? Nooo! Sono parole di Umberto Bossi. Dette in una situazione non così dissimile da quella di oggi. Ma abissalmente distanti dalle pernacchie e dagli insulti di questi giorni.
È il 23 aprile 1993. Il mondo politico è scosso dall’inchiesta Mani pulite, Bettino Craxi è stato costretto a lasciare dopo molti anni la segreteria del Psi, Giorgio La Malfa quella del Pri, Renato Altissimo quella del Pli. Il 18 aprile una schiacciante maggioranza di italiani ha appena spazzato via la quota proporzionale al Senato e il finanziamento pubblico dei partiti. Non passa giorno senza un arresto per tangenti o un allarme sulla gravità del momento economico.
La maggioranza parlamentare uscita dalle elezioni del 1992 con 206 seggi democristiani, 92 socialisti, 17 liberali, 16 socialdemocratici, sarebbe teoricamente ancora salda. Per capirci: una svolta potrebbe esser dipinta, esattamente come oggi, come un tradimento della volontà espressa 11 mesi prima dagli elettori che avevano dato al quadripartito una larga maggioranza iniziale con 33 voti in più al Senato e 50 alla Camera. Ma la politica, come è ovvio, non è fatta solo di numeri. E il 22 aprile Giuliano Amato è salito al Quirinale per dare le dimissioni. Mentre da una parte e dall’altra dibattono sulle diverse soluzioni possibili, Umberto Bossi non ha dubbi. E in una intervista al Corriere della Sera spiega che dopo quanto è accaduto, al di là degli aspetti formali, «questo Parlamento è finito, completamente delegittimato». Dunque? «Ci vuole un governo istituzionale o di tecnici. Vanno bene sia Spadolini che Napolitano, ma andrebbe meglio il governo di tecnici senza mascherature, con Mario Monti, l’economista, presidente del Consiglio». Un vecchio pallino. Pochi mesi prima, da membro della commissione parlamentare di vigilanza sulla Rai, il Senatur voleva commissariare la tv di Stato e chi aveva proposto come commissario? Monti.
Quando il leader della Lega abbia cambiato idea non è chiarissimo. Forse nell’aprile del 2001, quando rinfacciò al professore di essere troppo europeo e poco «italiano»: «Abbiamo un Commissario di Governo che mi chiedo cosa ci stia a fare là in Europa: fa gli interessi dell’Italia oppure no? Un Commissario italiano in Europa deve lavorare per l’Italia. O no?». La diffidenza fu rafforzata nel giugno del 2005. Quando Monti, rispondendo alla Lega che aveva annunciato un referendum contro l’euro per tornare alla lira, ricordò divertito sul Corriere che «nell’agosto 1996 in vista della dichiarazione di indipendenza della Padania e della formazione del governo padano», Umberto Bossi aveva scritto «al presidente della commissione europea, Jacques Santer, chiedendo indicazioni su come far aderire la Padania all’Unione Economica e Monetaria fin dall’inizio, previsto per il 1 gennaio 1999».
Certo è che da allora i rapporti tra il varesotto (della provincia) e il varesino (di città) sono precipitati. Al punto che il primo commento del Senatur all’ipotesi di un governo tecnico guidato da Monti, un tempo invocato, fu due mesi fa il gesto che nell’«Oro di Napoli» Eduardo dedica al duca Alfonso Maria di Sant’Agata dei Fornari: «Prrrrrr!». Un esordio proseguito, nella scia della scelta fatta ( «Se sono così fessi da mandarci all’opposizione ci rifacciamo la verginità») con toni sempre più aspri. Prima le accuse al premier di avere allestito un governo «contro la volontà del popolo». Poi la denuncia di un golpe antidemocratico. Poi il commento ai primi passi del conterraneo: «Fa schifo». Poi i fischietti in Aula e lo striscione «governo ladro». Fino alle battute dell’altra sera alla «Berghem Frecc», la festa invernale del Carroccio: «Ieri mattina in un bar uno mi fa: “ches chi l’è matt”. No, l’è no matt. L’è minga bon. Non è capace. Anche un cretino capirebbe…». Un’accelerazione polemica conclusa (per ora) con la «britannica» risposta alla folla che urlava: «Monti, Monti vaffanculo! Monti, Monti vaffanculo!». E lui: «Magari gli piace…».
Un capovolgimento totale, per motivi di bottega, rispetto al Bossi che nei panni del sobrio e pensoso statista, l’11 maggio scorso, mentre destra e sinistra si scazzottavano, dichiarava severo all’Ansa: «Tenere bassi i toni è difficile in campagna elettorale, ma io sto con Napolitano, è meglio non esagerare troppo». Lo stesso rapporto con il presidente della Repubblica, del resto, è uscito stravolto dalla sterzata tattica del leader del Carroccio. Il quale, in questi anni, aveva coperto fino a un mese fa l’inquilino del Colle di mille elogi: «È un uomo di grande buon senso». «È un buon presidente e lo dimostra con queste cose». «È una figura di garanzia». «Con lui quando ho avuto bisogno ho trovato la quadra. Sta bene dove sta». «Il capo dello Stato è stato molto equilibrato. Napolitano ogni giorno che passa, vicenda dopo vicenda, si dimostra un ottimo presidente della Repubblica».
L’altra sera, tutto rovesciato: «Abbiamo subito anche il presidente che è venuto a riempirci di tricolori, sapendo che non piacciono alla gente del Nord. Altro che democrazia!». Poi l’invito alla folla: «Mandiamo un saluto al presidente della Repubblica!». E giù fischi. «D’altra parte nomen omen, si chiama Napolitano». Insomma: «un terùn». Peccato che, anche in questo campo, esistano gli archivi. Come un’Ansa del 17 marzo: «Anche Umberto Bossi e i ministri leghisti hanno battuto le mani al presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, al termine del suo discorso nell’Aula di Montecitorio per i 150 anni dell’Unità d’Italia…». Aaaaalt! Contrordine, padani!
Il Corriere della Sera 31.12.11