Molti italiani saranno rimasti sbalorditi alla vista di un presidente del Consiglio che si esprime con grafici; altri avranno trovato, tutto sommato, grigia un’esposizione in cui volutamente non si sono toccate corde emotive ma si è enunciata una lunga serie di fatti e di intenzioni. I telespettatori non erano preparati a una lezione in diretta, a un tipo insolito di comunicazione politica e continuano a restare spaesati di fronte a una griglia di provvedimenti che incide su moltissimi aspetti della società italiana.
Per superare lo sbalordimento occorre probabilmente mettersi nei panni del Professor Monti, nella condizione, incredibile per l’italiano medio, di un presidente del Consiglio che dichiara di non avere alcuna particolare ambizione politica e di trovarsi in una posizione da superchirurgo incaricato di tagliare e ricucire là dove è risultato impossibile, a chi ne aveva il mandato politico, di fare altrettanto.
Agli occhi di un osservatore esterno, la manovra del presidente del Consiglio si svolge tra due fuochi. Il primo è rappresentato dalla crisi del debito pubblico italiano sui mercati finanziari internazionali. La sua gravità non viene normalmente colta dal normale cittadino ma è difficile esagerarla: senza alcuna particolare «colpa» dell’Italia, i mercati hanno bruscamente cambiato opinione, negli ultimi mesi, sulla gravità dei debiti sovrani. La condizione debitoria italiana (1,2 euro di debiti per ogni euro di produzione annuale) prima ampiamente tollerata per la dimostrata capacità italiana di mantenere sostanzialmente stabile il debito stesso, è diventata insostenibile nel giro di pochi mesi: nessuno vuol più acquistare, senza un consistente premio per il rischio, i titoli del debito pubblico italiani e molti scommettono sull’incapacità italiana di restituire il debito.
L’Italia si è trovata in condizioni di grande debolezza di fronte a imposizioni estremamente dure e qualcuno potrebbe osservare che le cifre complessive della manovra assomigliano alle imposizioni di un trattato di pace dopo una guerra persa; altri obietteranno che l’Italia sta pagando per tutti, in quanto la manovra italiana ha evitato che il ciclone monetario si scaricasse sui sistemi bancari di altri Paesi, meno solidi di quanto appaia. Il fatto è che l’affermazione del presidente del Consiglio circa l’impossibilità di pagare le tredicesime, se non si fosse accettata una rapidissima manovra, non è retorica. Senza il suo frettoloso viaggio a Bruxelles e la definizione di un programma radicale di rientro dal deficit, si sarebbe dovuto ricorrere ad altri tagli oppure ad altri inasprimenti fiscali almeno equivalenti a quelli messi in atto e per i quali la classe politica riteneva di non avere il mandato.
Oltre a questo fuoco internazionale, il Professor Monti se la deve vedere con un secondo fuoco che cova, in maniera preoccupante all’interno del Paese, dove si moltiplicano i segnali di crescenti diseguaglianze economiche e di disgregazione sociale. Ieri una raffica di comunicati dell’Istat ha segnalato che il livello di fiducia delle imprese si è fortemente abbassato: la scarsità di liquidità del sistema bancario corre il rischio di portare a estese rotture del normale tessuto economico-commerciale. Sempre secondo l’Istat, un quarto della popolazione – con punte molto maggiori nel Mezzogiorno – si trova in condizioni di povertà o di rischio di povertà, con difficoltà a pagare le bollette, l’affitto o il mutuo.
Poco importa che i totali degli indigenti mostrino variazioni minime negli ultimi due anni: con il persistere di una situazione così grave e così diffusa, che toglie dignità alle persone colpite, la trasformazione delle persone stesse da «indigenti» a «indignate» può essere un passo molto breve: sono ormai numerosi i casi, in Paesi ricchi e meno ricchi, di situazioni di rivolta, o, in ogni caso, di rifiuto dell’ordine esistente. All’altro estremo dello spettro sociale crescono invece incoscienti manifestazioni di arroganza, come quella del riccone che scende in elicottero sulla spiaggia per portare la mamma al ristorante. Per non parlare della Regione Sicilia che continua a garantire pingui indennità ai consiglieri regionali e ad assumere personale senza averne i mezzi.
La logica vorrebbe che si portasse via reddito ai ricconi arroganti e lo si ridistribuisse a chi è vicino alla povertà. Si tratta però di un’operazione molto difficile perché il reddito dei ricchi è spesso ben al riparo, in Italia e all’estero. Per quanto i meccanismi messi in atto per stanare gli evasori facciano registrare un discreto successo, il risultato è, come minimo, incerto e soprattutto richiede tempo.
Muoversi tra il fuoco dei mercati internazionali e quello dell’instabilità interna è, al tempo stesso, arduo e impopolare. Richiede, tra l’altro, che lo stupore di chi vede un presidente del Consiglio che illustra un grafico invece di fare della retorica si trasformi in un allargamento di vedute; che gli italiani si stacchino almeno un po’ da una visione egoistica che riferisce tutto a sé e alla propria famiglia nel massimo disinteresse per la dimensione pubblica; che escano da quello che Francesco Guicciardini, nella prima metà del Cinquecento, chiamava il loro «particulare». Allora miopia ed egoismo fecero scomparire molto rapidamente quasi tutti gli Stati italiani dalla mappa dei Paesi avanzati ed ebbe inizio una stagnazione dei redditi e un arretramento economico e civile durato tre secoli. C’è da augurarsi che questa volta vada meglio.
La Stampa 30.12.11