Siamo ora giunti, in special modo in Europa, a un terzo appuntamento con la storia: quello del calare – approfondendolo come non mai – il nostro processo di integrazione nel contesto di una fase critica della globalizzazione. Ed è vero che questa volta le leadership europee appaiono invece in grande affanno a raccogliere la sfida, innanzitutto nei suoi termini di crisi incalzante dell´euro; appaiono palesemente inadeguate anche a causa di un generale arretramento culturale e di un impoverimento della vita politica democratica, che hanno congiurato nel provocare fatali ripiegamenti su meschini e anacronistici orizzonti e pregiudizi nazionali. Particolarmente acuta è oggi per le forze riformiste l´esigenza di perseguire nuovi equilibri, sul piano delle politiche economiche e sociali, tra i condizionamenti ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato e valori di giustizia e di benessere popolare, divenuti concrete conquiste in termini di diritti e garanzie attraverso la costruzione di sistemi di Welfare State in Italia e in Europa. Con i Trattati di Roma del 1957 e la nascita del Mercato Comune, furono riconosciuti e assunti dall´Italia i fondamenti dell´economia di mercato, i principi della libera circolazione (merci, persone, servizi e capitali), le regole della concorrenza; quelle che ancor oggi vengono denunciate come omissioni o come chiusure schematiche proprie della trattazione dei «Rapporti economici» nella Costituzione repubblicana, vennero superate nel crogiuolo della costruzione comunitaria e del diritto comunitario.
Nell´accoglimento e nello sviluppo di quella costruzione, si riconobbe via via anche la sinistra, prima quella socialista e poi quella comunista. Ora che a minare la sostenibilità di quella grande e irrinunciabile conquista che è stata la creazione dell´euro concorre fortemente la crisi dei debiti sovrani di diversi Stati tra i quali l´Italia, è diventata ineludibile una profonda, accurata operazione di riduzione e selezione della spesa pubblica, anche in funzione di un processo di sburocratizzazione e risanamento degli apparati istituzionali e del loro modus operandi. Tale discorso non può non investire le degenerazioni parassitarie del «Welfare all´italiana», rifondando motivazioni, obiettivi e limiti delle politiche sociali, ovvero rimodellandole in coerenza con l´epoca della competizione globale e con le sfide che essa pone all´Italia.
Caro Direttore, ci confrontiamo ormai quotidianamente con la crisi di quel progetto europeo che ha rappresentato la più grande invenzione politica della seconda metà del Novecento, sprigionando dinamismo e potenzialità in tale misura da imporsi come punto di riferimento, se non come modello, ben oltre i confini dell´Europa. E quella che ha finito per emergere è in effetti la crisi delle leadership politiche cui spettava dare, dall´inizio del nuovo secolo, sviluppo coerente al processo di integrazione europea. Siamo dinanzi a un´insufficienza storica, che ci rimanda, per contrasto, a quel che fu, in epoche precedenti, «una classe nettamente superiore di statisti», ispiratori e guide delle democrazie occidentali. E citando in proposito il giudizio di Tony Judt (che in quella cerchia collocava anche Luigi Einaudi), tu hai accennato alla questione sempre aperta se furono le circostanze o la cultura dell´epoca a determinare l´ingresso nell´arena politica e l´affermazione di quelle personalità.
Ora, se guardiamo all´Europa e anche all´Italia quali uscirono dalla tragedia del nazifascismo e dalla Seconda guerra mondiale, possiamo vedere chiaramente quali prove ineludibili e vitali sollecitarono allora – in condizioni di ritrovata libertà e di rinascente democrazia – forze politiche vecchie e nuove, e forti individualità moralmente e socialmente sensibili, ad assumersi le loro responsabilità, rendendo possibile uno straordinario balzo in avanti dei propri paesi e dell´Europa occidentale. Decisiva era stata non solo la spinta delle circostanze storiche, ma anche la maturazione culturale degli anni seguenti la grande crisi e precedenti il secondo conflitto mondiale.
Se così nacque il progetto europeo e prese avvio il processo di integrazione comunitaria, questo processo – dopo essere avanzato tra alti e bassi e non pochi momenti critici – giunse a un punto di svolta all´indomani del grande mutamento del 1989. Anche allora operò in modo possente la leva delle «circostanze» e necessità storiche, ma è un fatto che si trovò pronta a raccoglierne la sfida una classe politica europea formatasi nell´esperienza comunitaria in modo da trarne capacità di visione e padronanza istituzionale. Ne scaturirono il Trattato di Maastricht e la scelta della moneta unica.
Siamo ora giunti, in special modo in Europa, a un terzo appuntamento con la storia: quello del calare – approfondendolo come non mai – il nostro processo di integrazione nel contesto di una fase critica della globalizzazione. Ed è vero che questa volta le leadership europee appaiono invece in grande affanno a raccogliere la sfida, innanzitutto nei suoi termini di crisi incalzante dell´euro; appaiono palesemente inadeguate anche a causa di un generale arretramento culturale e di un impoverimento della vita politica democratica, che hanno congiurato nel provocare fatali ripiegamenti su meschini e anacronistici orizzonti e pregiudizi nazionali.
Per reagire ai rischi che ciò comporta, è importante recuperare apporti di cultura politica che costituiscono preziosi giacimenti ancora insufficientemente esplorati: e farlo innanzitutto paese per paese, a cominciare da noi in Italia. Di qui anche la riflessione di Reset, che vivamente apprezzo, sull´eredità, sugli insegnamenti di Luigi Einaudi (vedi Reset 127-ndr). Ne abbiamo anche discusso, caro Direttore, in una conversazione tra me e te. Permettimi di limitarmi ora a poche, scarne considerazioni.
Particolarmente acuta è oggi per le forze riformiste l´esigenza di perseguire nuovi equilibri, sul piano delle politiche economiche e sociali, tra i condizionamenti ineludibili della competizione in un mondo radicalmente cambiato e valori di giustizia e di benessere popolare, divenuti concrete conquiste in termini di diritti e garanzie attraverso la costruzione di sistemi di Welfare State in Italia e in Europa. Ebbene, per comprendere e affrontare le sfide di un´economia di mercato globalizzata, rimuovendo incrostazioni corporative e assistenzialistiche rimaste ancora pesanti nel nostro paese, la lezione di Luigi Einaudi può suggerire riflessioni e stimoli fecondi. Ci si può, naturalmente, chiedere innanzitutto come e perché quel filone di pensiero liberale abbia incontrato sordità e suscitato contrapposizioni nell´area del riformismo e, più concretamente, nella sinistra legata al mondo del lavoro, quando prese corpo, tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Cinquanta, una nuova dialettica politica democratica nell´Italia repubblicana. In effetti, i termini di quella dialettica furono drasticamente segnati da una conflittualità ideologica che discendeva in larga misura dal contesto internazionale presto precipitato nella guerra fredda.
Dogmatismi e schematismi ebbero il sopravvento su ispirazioni di cultura liberale pure presenti nello stesso Pci; e diventò difficile distinguere le verità del «liberismo» einaudiano e più in generale dell´approccio ideale e politico liberale, nella varietà delle sue voci. Ho rievocato quell´atmosfera e quelle incomprensioni, ricordando nel 2009 Norberto Bobbio e il suo dialogo-duello col Pci, sul tema della libertà, negli anni Cinquanta.
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Con i Trattati di Roma del 1957 e la nascita del Mercato Comune, furono riconosciuti e assunti dall´Italia i fondamenti dell´economia di mercato, i principi della libera circolazione (merci, persone, servizi e capitali), le regole della concorrenza; quelle che ancor oggi vengono denunciate come omissioni o come chiusure schematiche proprie della trattazione dei «Rapporti economici» nella Costituzione repubblicana, vennero superate nel crogiuolo della costruzione comunitaria e del diritto comunitario. Nell´accoglimento e nello sviluppo di quella costruzione, si riconobbe via via anche la sinistra, prima quella socialista e poi quella comunista.
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È indubbio che in Italia, già a partire dagli anni Cinquanta, lo Stato intervenne con sempre minore «prudenza» e senso del limite, nella vita economica: dapprima, e per un non breve periodo, si trattò di un intervento diretto nell´attività produttiva, anche da Stato proprietario (sia pure nella più flessibile forma del sistema delle partecipazioni statali); si trattò poi di un ricorso crescente alla spesa pubblica, e sempre di più alla spesa pubblica corrente, in funzione di domande e interessi di carattere politico-elettorale e con la conseguenza dell´accumularsi di uno spaventoso stock di debito pubblico.
Ora che a minare la sostenibilità di quella grande e irrinunciabile conquista che è stata la creazione dell´euro concorre fortemente la crisi dei debiti sovrani di diversi Stati tra i quali l´Italia, è diventata ineludibile una profonda, accurata operazione di riduzione e selezione della spesa pubblica, anche in funzione di un processo di sburocratizzazione e risanamento degli apparati istituzionali e del loro modus operandi. Tale discorso non può non investire le degenerazioni parassitarie del «Welfare all´italiana», rifondando motivazioni, obiettivi e limiti delle politiche sociali, ovvero rimodellandole in coerenza con l´epoca della competizione globale e con le sfide che essa pone all´Italia.
Da un lato, quindi, occorre fare più che mai i conti con la realtà del mercato e quindi del ruolo, già d´altronde ampiamente riconosciuto, che spetta all´iniziativa e all´impresa privata, con le sue esigenze di libertà, di affrancamento da vincoli che ne comprimono la competitività, e dall´altro lato c´è da valorizzare altre essenziali componenti di una visione liberale come fu quella di Luigi Einaudi.
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Il recupero di simili approcci e contributi di pensiero ai fini di una revisione, di un adeguamento al nuovo contesto generale, della piattaforma programmatica e di governo delle forze riformiste, non può apparire né improprio né arduo: se è vero che, come è stato osservato, la fecondità della ricerca del liberale Einaudi resta testimoniata dalla varia collocazione di uomini usciti dalla sua scuola, tra i quali eminenti liberalsocialisti e socialisti liberali.
Il «recupero» di cui parlo dovrebbe essere parte di quel rinnovato sforzo di qualificazione culturale e morale della politica italiana ed europea, la cui necessità ho richiamato – caro Direttore – come punto di partenza di questa mia lettera. Non possiamo ormai che riflettere sull´Italia guardando all´Europa: anche così tornando a incontrare Einaudi, come grande anticipatore e assertore di quella prospettiva di unione federale dell´Europa che oggi siamo chiamati a rilanciare mirando con coraggio einaudiano al più coerente superamento del dogma e del limite delle sovranità nazionali.
La Repubblica 29.12.11