Nel 2013 andranno al voto i ragazzi nati quando si era già concluso il primo giro di Berlusconi a palazzo Chigi. Quelli che al crollo delle Torri Gemelle, l’11 settembre del 2001, avevano attorno ai sei anni. Che di Giovanni Paolo II, morto allo scoccare dei loro dieci anni, conservano l’immagine di un vecchio fiaccato dalla malattia e non del papa globe trotter che radunava milioni di fedeli nelle spianate e nelle città di tutto il mondo. Che sono cresciuti a pc, videogiochi, telefonini e pochissima televisione (al massimo, quando erano piccini, piazzati davanti allo schermo da genitori in cerca di una pausa…). Che si aggirano sui social network dall’alba alla notte. Che non sanno usare più penne e matite. Che hanno reinventato la composizione delle parole, e continuano a farlo, per adattarle ai nuovi mezzi di comunicazione e di relazione interpersonale.
Nel 2013 l’Italia avrà ai suoi vertici gli stessi uomini e le stesse donne del ’95. Non è questione che riguarda solo la politica, dove pure il fenomeno è solare e macroscopico. In tutti i settori della società capita la stessa cosa. Basta del resto dare uno sguardo alla composizione dell’esecutivo Monti, all’età media dei tecnici che il presidente del consiglio (a proposito, nel ’95 era già commissario europeo) ha chiamato dalle università, dall’amministrazione pubblica, dalle professioni per averne conferma.
E anche a quelli che erano in predicato di diventare ministri e poi sono rimasti appiedati. Anche per questo è possibile leggere che Berlusconi si proclama «ancora in pista», praticamente a venti anni dall’esordio politico e mentre nel mondo nessuno dei suoi colleghi di allora si trova dove si trovava in quella primavera del ’94. Lui lo dice e non c’è uno che salti su: ma per favore, si goda la pensione…La ragione è sempre la stessa, Berlusconi interpreta e enfatizza quello che si muove nella pancia del paese. E nella pancia del nostro c’è anche l’arroccarsi sulle cime, qualsiasi siano, la prassi dell’ascesa in funzione dell’anzianità e non delle capacità o del merito, la sfiducia nei giovani, sfiducia che è sì fondata sull’età ma anche sul fatto che dargli spazio e ruolo, in questa congrega o nell’altra, fa saltare equilibri e intese consolidate, meglio molto meglio che entri pianino imparando le regole della casa.
E pensare che quando, canuti, toccherà ai ragazzi ed ai giovani d’oggi, quasi quasi non avranno nemmeno il problema di sbarrare la strada ai ragazzi ed ai giovani d’allora. Perché? Semplice. Non ce ne saranno. Di figli se ne fanno sempre meno. Nascono poco più di mezzo milione all’anno. Negli anni settanta sfioravano il milione.
Un crollo secco. E si continua ad andare giù. Già ora sono più i nonni che i nipoti. Dopodomani anche i bisnonni saranno più numerosi dei pronipoti. Di questo passo l’Italia va a sbattere. Altro che crisi economica.
Magari quella, con un aiutino della ripresa internazionale, all’alba del 2013 si riuscirà a superare. Ma la crisi dell’Italia paese inospitale per i giovani e con gli ospedali dove chiudono i reparti di pediatria e si gonfiano quelli di geriatria? Queste cose studi e indagini le raccontano da anni. Ma nella società politica e nella società civile sono rimasti lettera morta.
Ora, nella stagione in cui i due principali partiti del sistema politico, hanno rimesso nei foderi le sciabole per (provare a) collaborare a rimettere in sesto la nave italiana, sarebbe il momento di spingersi oltre la contabilità pubblica e l’attività economica e scardinare l’assetto che la società s’è data dagli anni sessanta in poi. Per evitare il default civile. Serve una rivoluzione. Roba da statisti, gente dotata di occhio capace di guardare oltre il seggio elettorale.
da Europa Quotidiano 29.12.11