È stupefacente che l’Italia e l’Europa stiano precipitando in una gravissima recessione senza fare niente per arrestarla e, anzi, aggravandola con politiche restrittive draconiane, irrimediabilmente destinate a comprimere i consumi e gli investimenti. Questo è accaduto al vertice europeo dell’8-9 dicembre, sotto l’imperio del duo Merkel-Sarkozy.
In quella sede l’ortodossia mirata a un’austerità fiscale generalizzata è risultata addirittura rafforzata, spingendo l’Europa nel «vicolo cieco» di cui parla Giuliano Amato. E ciò mentre indicatori tutti al negativo la disoccupazione esplosiva, la decrescita del commercio internazionale, lo sgonfiamento del boom dei paesi emergenti compresa la Cina, la moltiplicazione delle misure protezionistiche inducono il Fondo Monetario Internazionale ad evocare il rischio che si ripeta qualcosa di molto simile alla Grande Depressione degli anni 30, con il suo corredo di congiunzione tra recessione e tragedie totalitarie.
In questa situazione non dovrebbe sfuggire a nessuno la rinnovata centralità della questione del lavoro, non come ulteriore precarizzazione del mercato del lavoro (come vorrebbero i sostenitori dell’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori), ma come riattivazione di «piena e buona occupazione» con un Piano straordinario di creazione di lavoro per giovani e donne. Puntare sulla «piena» occupazione, infatti, è oggi il solo modo per far ripartire la crescita, così come generare «buona» occupazione è il solo modo per avere non una crescita quale che sia ma un nuovo modello di sviluppo. Non a caso furono politiche occupazionali su larga scala e di taglio non tradizionale quelle con cui il New Deal di Roosevelt sconfisse la depressione degli anni 30.
Vi sono, dunque molte buone ragioni per compiere un salto culturale e riscoprire l’attualità di Keynes, il quale giunse a parlare di «socializzazione dell’investimento» e di «socializzazione dell’occupazione». Oggi, mentre la crisi globale scoppiata nel 2007-2008 sposta la sua carica distruttiva sull’Europa aggredendo direttamente il debito sovrano dei Paesi europei e mettendo in forse la stessa sopravvivenza dell’euro, si riproducono condizioni impressionantemente analoghe a quelle studiate da Keynes: la distruzione di valore patrimoniale netto e l’illiquidità feriscono tutti gli operatori, gli investimenti crollano e i profitti flettono, la riduzione del reddito e la disoccupazione di massa scaturiscono dalla trasmissione delle turbolenze finanziarie all’economia reale e dalla deflazione da debito.
Per evitare che le forze destabilizzanti prendano il sopravvento l’ipotesi keynesiana dell’intrinseca instabilità del capitalismo prevede, anziché solo nuove regolazioni e liberalizzazioni pur opportune, la necessità di uno stimolo fiscale pubblico di grandi dimensioni, del tipo di quello tentato da Obama negli Usa. Quell’intervento diretto dello Stato (che oggi dovrebbe configurarsi alla scala di una statualità europea) che, preteso anche e soprattutto dai neoliberisti quando si tratta di salvare le banche e gli operatori finanziari, per altre finalità si vorrebbe far «arretrare» con tagli di spesa e privatizzazioni. Keynes, invece, consiglierebbe piani di spesa pubblica diretta per il lavoro e per gli investimenti, finanziati in disavanzo con nuova moneta, distinguendo tra debito «buono» (quello, per l’appunto, per nuovi investimenti) e debito «cattivo» (quello per spesa pubblica corrente improduttiva) e tenendo congiunti il lato della domanda e quello dell’offerta, tanto più in una fase di squilibri nelle capacità produttiva tra eccessi in alcuni settori e deficit in altri. Per Keynes solo un regime di pieno impiego dei fattori della produzione giustifica il principio del pareggio di bilancio, che in ogni caso non può valere per gli investimenti pubblici, vero traino dello sviluppo economico in una fase in cui si tratta non solo di rilanciare la crescita ma di cambiarne la qualità e la natura.
La «socializzazione degli investimenti», destinata a riqualificare l’offerta e ad aumentarne la produttività, al tempo stesso sostiene la domanda contenendo l’inflazione e riducendo nel tempo il rapporto debito/pil. La «socializzazione dell’occupazione» fa sì che l’operatore pubblico si doti di un «piano del lavoro» per la miriade di obiettivi che attendono solo agenzie e strutture che se ne prendano cura: tecnologie verdi, energia, infrastrutture, trasporti, salute, educazione, servizi sociali.
Per tutto ciò a un ripensamento strategicamente innovativo delle problematiche del lavoro e dell’occupazione deve essere orientato un armamentario in grado di sottrarre il «riformismo» a un tardo blairismo e a un veteroliberismo e di interpretarlo alla luce delle altissime sfide del presente e del futuro: una Tobin tax che punti alla definanziarizzazione di economie eccessivamente finanziarizzate, la tassazione dei patrimoni, il ripristino di un controllo sui movimenti di capitale volto a rendere «intelligente» la globalizzazione sregolata e iniqua che abbiamo avuto fin qui, la mutualizzazione del debito europeo, la riaffermazione in Europa del ruolo degli organismi comunitari e la ripartenza dell’unificazione politica.
L’Unità 29.12.11