Gli attentati islamici contro i cristiani in Nigeria nel giorno di Natale lasciano veramente senza parole. Alla violenza fondamentalista siamo preparati e, in particolare, a quella contro i cristiani, in Pakistan, India, Iraq, Somalia, Nigeria. Ma questi ultimi colpiscono per la scelta del giorno, importante per i cristiani ma privo di significato ostile per i musulmani.
Oramai i cristiani, nel mondo globalizzato che li ha resi relativamente più minoranza, rappresentano un bersaglio prevedibile e facile. Prevedibile perché evocano simbolicamente la fede maggioritaria in un passato che si vorrebbe cancellare, facile perché trattasi di un bersaglio indifeso ed inerme.
Per loro il sacrificio e il martirio tornano a essere il prezzo e lo stigma di una scelta sicuramente esigente. La domanda che allora si pone per i cristiani che abitano nei paesi tutto sommato tranquilli dell’occidente attiene la loro responsabilità, i loro comportamenti, le scelte, le iniziative che anche non intenzionalmente possono aggravare o alleviare la condizione dei loro fratelli più esposti nel “nuovo mondo”. E, per chi non lo è, si pone la necessità anche in Italia di osservare in modo oggettivo e storicizzato il cristianesimo non come la religione del potere e del privilegio, ma come la fede oggi più perseguitata nel mondo.
La chiesa cattolica è per definizione universale, e i due ultimi pontificati l’hanno sicuramente aiutata a dilatare il suo orizzonte. Tuttavia tentare, come pretenderebbero taluni, anche uomini politici, di rattrappire la prospettiva del magistero a una geografia domestica è un grave errore ancor più se ciò comportasse una certa disattenzione verso quella parte del mondo in cui il cristianesimo è chiamato a giocare un nuovo costoso protagonismo.
Un secondo ordine di pensieri mi è venuto, nello stesso giorno di Natale, davanti al presepio. Il presepio da secoli ci racconta il senso del cristianesimo con quel linguaggio delle immagini che tanto coinvolge i bambini e interpella gli adulti. Il senso e la “differenza” della fede cristiana rispetto ad altre – pur rispettabili s’intende – fedi nell’unico Dio. Il cristiano infatti crede in un Dio che per amore dell’uomo si fa anch’Egli uomo. Anzi bambino. L’uomo-Dio infatti avrebbe potuto materializzarsi sulla terra apparendo improvvisamente tra gli uomini, da uomo adulto. Invece ha scelto di nascere come tutti gli uomini bambino, chiedendo il permesso ad una donna.
L’idea che Dio chieda il permesso ad una donna di venire tra noi, a me pare straordinaria: non un Dio potente e prepotente, ma un Dio che chiede l’autorizzazione ad essere accolto come uomo tra gli uomini. Trovo che si tratti di un atto di riconoscimento della libertà dell’uomo che non ha eguali. Diceva Don Primo Mazzolari: «Se il mondo vorrà avere ancora uomini liberi, uomini giusti, uomini che sentono la fraternità, bisognerà che mai dimentichiamo la strada del presepio». Per questo penso che il presepio non sia uno spettacolo (solo) per bambini e che parli agli adulti anche non credenti, uomini politici compresi.
Ne ho avuto personalmente conferma in questo Natale in due occasioni. La sera della vigilia sono andato a messa nella mia città, Reggio Emilia, in una parrocchia in cui un vecchio sacerdote, un gigante di sapienza cristiana, aveva preparato un presepe “sconvolgente”: una enorme carta geografica disegnata sul pavimento in cui sono dipinte senza nome tutte le nazioni, tranne l’Italia, con un bambino sospeso a due metri di altezza sulla geografia del mondo. Ma, mancava l’Italia. All’ingresso della chiesa un cartello che ne riassumeva il significato: «O mia patria, sì bella e perduta”.
L’Italia si è perduta, inabissata appunto. Un pugno nello stomaco. Soprattutto per chi a vario titolo ne porta la responsabilità. Mi sono sentito colpito come uomo politico, oltreché come uomo tra gli altri uomini. Descrizione più forte della crisi che ci sta investendo non è possibile, e insieme dello sforzo che ci è richiesto per fare riemergere dall’abisso dei mari questa “patria, sì bella…”.
Il giorno di Natale poi ho assistito alla messa in carcere, come sempre bella e commovente. C’erano tutti i detenuti, credenti, diversamente credenti, non credenti. Ognuno a recitare il Padre nostro nella propria lingua e a cantare le canzoni della propria tradizione. Di tanto in tanto un detenuto dell’ultima fila che, approfittando della distrazione più o meno complice delle guardie, si avvicina a un amico della prima fila (e viceversa) per abbracciarlo. I ritmi del gruppo dei detenuti africani che creano l’atmosfera di un Natale che non ha bisogno di essere spiegato. Poi, in una stanza accanto, il presepe, apparentemente simile a quello delle nostre case, muschio, angeli, pastori, e la capanna isolata da un muro sottile e alto che deve essere rimosso per poter vedere quella famiglia lì ospitata, come sappiamo, in quell’alloggio di fortuna oggi separato dal resto del paesaggio dal muro.
Di nuovo mi sono sentito interpellato come politico, come rappresentante di quella politica che ormai ha fatto l’abitudine a quel muro, a quella divisione che, nonostante Erode e il resto, duemila anni fa non c’era. Ecco perché penso che il presepe non sia roba (solo) da bambini.
E che quel Bambino continui a scuotere e a scandalizzare chi ha occhi per vedere e orecchie per ascoltare. Io mi sono sentito gratificato e colpito. E quel “groppo in gola” mi auguro continui a tormentarmi a lungo, ogni giorno sui banchi della mia responsabilità personale, in primo luogo quella politica.
da Europa QUotidiano 27.12.11