Non so se siano state la letterina a Gesù Bambino di Ermanno Olmi o i buoni propositi di Francesco Cataluccio, storie di un gesto che smuove la zolla, e di alberi di oggi adulti, in certi casi decrepiti. Potrebbe essere stato anche Vincenzo Cerami con il suo Natale «profumo misto di abete e agrumi».
Forse, è solo il senso pieno delle inquietudini di questa stagione e la consapevolezza che siamo al giro di boa di un anno (davvero) difficile. Non so se sia colpa della mia testa, che da un po’ di tempo in qua gira all’indietro, e scava nei ricordi.
Certo è che mi viene prepotentemente in mente, in questi giorni, una storia di uomini e donne che si lanciano secchi e muovono le mani con gesti rituali e veloci tra un solco e l’altro pieno di noci e nocciole. Ad ‘abbacchiare’ le noci o a raccogliere le nocciole, le mani si spellano, si macchiano, diventano di una certa maniera. Un uomo sui cinquant’anni segue il gruppo con una specie di scopa in mano. Ammassa le foglie che gli altri lasciano indietro.
C’è chi rimuove i sacchi, si solleva una nuvola, poi scompare, poi ritorna, poi scompare. Un altro ancora, il più abile, sale su un albero, di ramo in ramo arriva in cima. Ha ben stretto nelle mani un bastone, batte le noci, cadono a pioggia e tutti guardano. A questa scena ho assistito da ragazzo, di prima mattina, dal terrazzo di casa mia, a Nola, in un settembre nuvoloso. Per terra era ancora bagnato, l’aria era nitida, io mi sentivo un intruso, cercavo di evitare gli sguardi di chi stava lavorando per non dare la sensazione di stare lì a osservare spinto da malsana curiosità.
A un certo punto, succede l’imprevisto: la più anziana del gruppo, una donna solida e determinata, raccoglie una manciata di noci, le pulisce dalla scorza verde, drizza la schiena e fa un balzo sulla strada asfaltata. Alza lo sguardo e dirige gli occhi dalla mia parte, dice che mi vuole fare un regalo e, incurante delle mie resistenze, lancia sul terrazzo un pugno di noci. Si spargono tutte tra una sedia e l’altra.
Le raccolgo e mi volto, vorrei ringraziare. Non c’è già più: è di nuovo in mezzo alla polvere, insieme agli altri, nei solchi. Non vuole essere ringraziata e il suo atteggiamento indica in modo inequivoco che non ce n’è bisogno. La mia ‘favola di Natale’ è questa piccola storia vera, di un settembre di tanti anni fa, che ci parla, attraverso le noci che stanno oggi sulle nostre tavole, di dignità del lavoro, della gioia del dono e di quella autenticità che sanno esprimere le persone e i gesti più semplici. Piccoli, grandi valori di cui abbiamo terribilmente bisogno.
da Domenica del Sole24Ore del 24.12.2011