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"Sangue a piazza Tahrir, il futuro di una rivoluzione" di Tahar Ben Jelloun

Gli avvenimenti in atto a piazza Tahrir, in Egitto, ci obbligano a rettificare alcuni dati divulgati da tutti noi, che però sono errati. Ciò che è accaduto un anno fa in Egitto non era una rivoluzione, bensì un colpo di stato militare. Mubarak non ha lasciato il Paese sotto la spinta dei manifestanti, per quanto numerosi e decisi, ma per volontà di una giunta militare che non gli ha lasciato altra scelta.
Questo punto è essenziale per comprendere la violenza della repressione scatenata dall´ottobre scorso contro gli egiziani e le egiziane. L´esercito ha preso il potere, facendo credere che sarà il popolo a governare il Paese. Grave errore. Il popolo è rimasto per le vie e sulle piazze, e ha creduto di essersi sbarazzato dalla dittatura di un capo corrotto. Ma purtroppo la verità è un´altra: l´esercito ha mantenuto lo stato d´emergenza decretato 50 anni fa. Il 9 ottobre scorso, alcune auto blindate hanno investito 27 manifestanti che si ribellavano contro le aggressioni ai danni dei copti; e il 19 novembre lo stesso esercito ha ucciso 50 manifestanti e tradotto davanti a tribunali speciali migliaia di insorti, condannati a pene pesanti. L´esercito non intende cedere neppure un grammo del suo potere, e soprattutto dei suoi privilegi. Come già Sadat, Mubarak aveva colmato i militari di favori: sapeva che in questo modo li avrebbe placati, evitando un colpo di stato. Ma nel gennaio scorso, quando tra il clamore popolare milioni di persone hanno occupato piazza Tahrir, così come i rivoluzionari francesi avevano preso Place de la Bastille, i militari non potevano contrapporsi a quella forza popolare, quando già si contavano centinaia di morti e di dispersi. Hanno dunque giocato il gioco della rivolta, mentre in segreto si preparavano a prendere il potere.
Il 20 dicembre migliaia di donne hanno manifestato specificamente contro le violenze dei soldati ai danni delle manifestanti arrestate. Ieri una di loro ha dichiarato davanti alle telecamere: «Mi hanno pestata, mi hanno strappato i vestiti di dosso. Ero nuda, ma nei miei occhi non c´era paura». Un´altra manifestante brandiva un giornale con la fotografia di tre soldati mentre trascinano a terra, come un animale, una donna a metà denudata, gridando: «L´Egitto senza dignità è un Egitto senza vita!».
I militari invitano le donne a restarsene a casa. Ma il 25 gennaio scorso queste donne hanno dato il via alla rivolta. Come chiedere loro di tornare in silenzio a fare le casalinghe? In ogni epoca, l´Egitto ha avuto le sue combattenti: non sono donne sottomesse né rassegnate. Se oggi Hillary Clinton dichiara che quanto avviene in Egitto è una vergogna per lo Stato, dimentica però di dire che il governo americano era stato messo al corrente del modo in cui i militari hanno destituito Mubarak per prendere il potere. Nessuno lo rimpiange, ma tutti esigono che sia giudicato, e soprattutto che riporti nel Paese i miliardi di dollari da lui rubati e depositati presso banche straniere. I militari non seguono questa via. Stanno rubando la rivoluzione del popolo, mentre le elezioni danno favoriti i fratelli musulmani.
Ora queste elezioni non sono democratiche, nella misura in cui si intende la democrazia come una cultura, una tradizione radicata nelle mentalità. In Egitto, come in Marocco e in Tunisia, la democrazia ha funzionato in quanto tecnica. Ma votare non basta per essere democratici: occorre difendere i valori fondamentali che sono alla base di un sistema democratico. Ora, la religione è incompatibile con la democrazia (si è ben visto ciò che ha dato la democrazia cristiana in Italia).
Quella che aveva preso il nome di “primavera araba” sta perdendo i suoi colori, e trascolora oramai verso il rosso: rosso sangue.
(Traduzione di Elisabetta Horvat)

la Repubblica 24.12.11