attualità, cultura

"L'antipolitica dei ricchi contro partiti e art.18", di Michele Prospero

Che brutta aria tira sulla politica. La campagna contro la casta ha affondato il colpo e in giro si incontrano solo macerie. La dignità della politica è stata saccheggiata. Ormai mancano solo le liste di epurazione per chiunque osi difendere la politica, intesa – perché no? – anche come professione. Distrutto culturalmente (si fa per dire) il prestigio della politica, per il lavoro sporco che resta ancora da compiere non mancherà in giro la bassa manovalanza, merce sempre abbondante in Italia. E così entra in scena Marco Travaglio che, da par suo (cioè con un supponente tono spregiativo), se la prende con lo scrittore Francesco Piccolo. La colpa? Aver difeso la politica, proprio su queste colonne (cioè sul giornale fondato da un politico di professione, Antonio Gramsci), dagli attacchi furibondi condotti da lunghi mesi a media unificati. Chiunque osi mettere in guardia dalla ricaduta nefasta della dominante ideologia odierna che fa della politica il nemico da strapazzare è solo un fiancheggiatore della casta, quindi un poco di buono da denigrare. Sacerdote ufficiale del nuovo conformismo che, va da sé, rivendica vittime sacrificali, Travaglio non prende Piccolo, e chiunque altro gli capiti a tiro, come un interlocutore con cui discutere, cercando magari di estrarre argomenti di un qualche peso. No, chi non si unisce all’assordante coro del Fatto o di Libero, del Giornale o del Corriere della sera contro la classe politica non scrive un articolo ma una «articolessa» in prosa pallosa, non esplicita una opinione ma sforna un sospetto «peana », pistolotto reverenziale in onore di una qualche potente divinità. Travaglio ambirebbe a possedere un linguaggio performativo, che solo pronunciando una frase ne realizza all’istante il contenuto. E così definisce Piccolo «sceneggiatore degli ultimi film di Nanni Moretti, ma non del prossimo». Accidenti: non del prossimo (dà una notizia, lancia un desiderio? Chissà). Il messaggio è però chiaro. Se ti azzardi a coprire la casta sei solo un reprobo e rischi grosso sulla tua ruvida pelle. Se non è un invito a dare il benservito a una penna venduta, poco ci manca. La descrizione caricaturale di Travaglio, che parla di partiti con casse luccicanti in cui affluiscono «soldi pubblici a palate», è solo un modo triviale per fiaccare per sempre il proibitivo compito di ricostruire i soggetti della politica, di farli riemergere dopo la catastrofe del potere conquistato per vent’anni dall’antipolitica dei ricchi. I partiti sono uno degli strumenti storici più significativi per abbattere il dominio della ricchezza e per consentire a chi non ha risorse economiche di difendersi, di contare, di crescere con gli altri nello spazio pubblico. È evidente che, prendendo spunto da privilegi più o meno rivoltanti da eliminare, i dorati professionisti dell’anticasta cercano soprattutto di colpire al cuore la funzione politica. Tolta la politica come cultura del conflitto per il bene pubblico, screditate le istituzioni, azzoppati i partiti, altri poteri troveranno comunque il modo di mostrare il loro volto vorace. Il potere non è mai uno spazio vuoto. Buttati i partiti (malati e da rigenerare), non restano affatto i magnifici cittadini incamminati in una splendida agorà ritrovata. Emergono potenze arcane, persuasori occulti o fortezze palesi. Il loro inquietante volto affiora, ad esempio, nella penna di una estasiata Milena Gabanelli che sul Corriere della sera di ieri tesse le lodi dei nuovi profeti del tempo, gli amministratori delegati, e invoca uno sforzo di intelligenza (sic) per la «costruzione di un sistema che permetta alle aziende (tutte e non solo quelle con meno di 15dipendenti) di poter assumere e licenziare». Questo mondo antico di imprenditori intrepidi che innovano e guardano lontano e di lavoratori che rifiutano di farsi merce e si rivoltano all’indietro perché vivono come un dramma perdere il posto era stato smantellato proprio dai grandi partiti di massa. I media unificati dal verbo dell’antipolitica vorrebbero restaurare quel brutto mondo antico in cui si dileguano i partiti, si disperdono i sindacati e ognuno è lasciato solo come un atomo rassegnato al dominio dei mercati. La libertà di lasciarsi sfruttare viene celebrata dai campioni dell’anticasta come la bella nuova frontiera. No,non sono innocenti le battaglie contro la casta. Chi si azzarda appena a sussurrare che la politica è una bella cosa (come accadeva nel film di Giuseppe Tornatore), o che il partito è il principale strumento con il quale i senza potere possono organizzarsi e lottare, è sbeffeggiato come il servile megafono di qualche «capataz del Pd». Capataz, dice Travaglio, cioè «capo, sorvegliante di operai». No, per rintracciare capataz e sorveglianti di operai si rivolga altrove, Travaglio. I partiti della sinistra hanno costruito la soggettività politica degli operai, hanno assicurato l’autonomia culturale del lavoro, non capataz.

L’Unità 24.12.11

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