Cambiano i governi, le maggioranze, le stagioni; ma Roma è l’eterna succursale di Bisanzio. Il governo tecnico sta ripetendo i riti levantini dei governi politici che l’hanno preceduto. Quest’ultima manovra sarà forse diversa dalle altre per i suoi contenuti, non già per le sue forme, non per le modalità del suo battesimo. Tre soprattutto: maxicommi, maxiemendamenti, e in conclusione un bel voto di fiducia. Con qualche danno alla legalità costituzionale, oltre che al decoro delle nostre istituzioni; ma tanto ormai ci abbiamo fatto il callo. Succede quindi, in primo luogo, che il decreto salva Italia sia vergato dalla penna d’oca del burocrate, sottraendosi alla comprensione dei comuni mortali. Provateci un po’ voi a decifrare per esempio questo brano: «Per tutto quanto non previsto dai commi da 24 a 26, si applicano in quanto compatibili le disposizioni relative al tributo annuale, compresa la maggiorazione di cui al comma 13». Tuttavia la vera sfida non è nemmeno quella d’interpretare i nuovi confetti normativi: è ancora più difficile scovarli. Servirebbe un minatore, quando l’articolo 14 declina per 47 commi (compreso il comma sui commi, quello appena citato) l’aureo tema delle tasse sulla spazzatura. O quando l’occhio inciampa sul comma 13-terdecies dell’articolo 10, a sua volta costruito per aggiungere il comma 2-bis a un articolo tris.
Per la verità, quest’ultima zeppa normativa non figurava nel testo originario del decreto: ce l’hanno aggiunta le commissioni della Camera. Però è esattamente qui la nostra sciagura nazionale, dato che a ogni giro di valzer cresce la commite. I commi si moltiplicano, si rincorrono l’un l’altro, infine trasformano le leggi italiane in altrettanti labirinti, come quelli descritti da Borges. E la labirintite uccide i cittadini, o meglio uccide il diritto di conoscere le norme che abbiamo sul groppone.
È a queste liturgie infernali che dobbiamo il record del mondo guadagnato nel 2007 dal governo Prodi: 1365 commi, tutti stipati dentro un articolo di legge. Nessun altro Parlamento lavora in questo modo. In Germania, in Francia, in vari altri Paesi ogni emendamento deve riferirsi a un solo articolo, non può aggredire l’intero progetto in discussione. In Austria nessun articolo può ospitare più di 3.500 battute, né allungarsi oltre 8 commi. In Italia, invece, il malcostume ha contagiato pure le Regioni, tanto che l’anno scorso l’Assemblea legislativa della Toscana ha corretto il proprio regolamento interno, per cercare di mettervi riparo.
Eppure Jeremy Bentham, già nel 1848, esprimeva una condanna contro gli articoli a due teste, perché violentano la libertà dei parlamentari, imponendo un voto in blocco su norme eterogenee. Figuriamoci se le teste sono centinaia, come succede alle nostre latitudini. In questo caso la commite, blindata dalla questione di fiducia, strangola la discussione, sequestra i diritti delle minoranze, si traduce in un fattore d’oscurità legislativa. Non a caso il presidente Napolitano, al pari dei suoi predecessori, vi ha puntato l’indice in molteplici occasioni (per esempio nel messaggio del 15 luglio 2009). Niente da fare, c’è sempre un’emergenza che giustifica l’abuso. Anche se l’emergenza permanente suona come un ossimoro, una contraddizione in termini.
Ma in realtà il primo voto di fiducia chiesto dal gabinetto Monti è ben diverso dalle 51 fiducie del gabinetto Berlusconi. Perché in questa circostanza è stato il Parlamento, non il governo, a pretendere un bavaglio. Lo ha preteso Berlusconi, poi Casini, mentre gli altri annuivano in silenzio. Che faine: così potranno raccontare agli elettori d’esserci stati costretti, a votare la manovra. Sicché stavolta non c’è nessun omicidio delle Camere da parte del governo. È un caso di suicidio.
Da Il Corriere della Sera del 17/12/2011.