Per l’Europa il 2012 non sarà un anno gradevole». Questo a dir poco singolare, ma probabilmente veritiero, biglietto di auguri per il Vecchio Continente porta la firma di Olivier Blanchard, il capo economista del Fondo Monetario Internazionale, ossia di quella grande istituzione i cui esperti verranno in visita (ispezione?) a Roma la settimana prossima. Gli ha fatto eco, a poche ore di distanza, il primo ministro polacco, Donald Tusk. Tusk ha pronunciato un durissimo discorso di saluto al Parlamento europeo, al termine del semestre di presidenza del suo Paese, l’unico in Europa che possa vantare risultati economici veramente buoni negli ultimi 2-3 anni. L’Europa, ha detto Tusk, è sull’orlo del precipizio, non si comporta più come una comunità ma come una somma di egoismi nazionali al punto che la crisi ormai si trova nei nostri cuori e non solo nelle nostre banche. Passando dai principi alle cifre, ancora una volta a poche ore di distanza, la Banca Centrale Europea ha rivisto ieri sensibilmente al ribasso le proprie stime per i Paesi dell’euro: mentre a settembre si prevedeva una crescita complessiva compresa tra lo 0,4 e il 2,2 per cento, in dodici settimane le cifre sono diventate -0,4 e 1,2 per cento.
La caduta non risparmia la (apparentemente) virtuosa Germania, dove l’Ifo, il maggior istituto di previsioni economiche, nel giugno scorso si aspettava per il 2012 una crescita del 2,3 per cento e ora è sceso allo 0,4 per cento.
Le stime del Centro Studi della Confindustria, rese note ieri, riflettono questo improvviso cambiamento di prospettive: il prodotto lordo italiano dovrebbe ridursi dell’1,6 per cento e non si tratterà certo di una decrescita felice, essendo accompagnata da un aumento della disoccupazione, da una stasi delle esportazioni e da una caduta secca (-4,8 per cento) degli investimenti. Come ha dichiarato il ministro delle Attività produttive, Corrado Passera, la situazione è peggiore delle attese e l’Italia «è già in recessione». A conferma di una situazione non certo lusinghiera, dal mondo dell’economia si ha notizia di innumerevoli casi di clienti che non pagano, fornitori che non vengono pagati, consumatori che riducono gli acquisti, imprese che riducono i programmi produttivi.
A settembre ci si cullava nella prospettiva di una dolce ripresa che si lasciasse finalmente alle spalle questa crisi così diversa dalle altre; ora siamo alle prese con l’anno sgradevole promesso da Blanchard. Il lettore può ben domandarsi che cosa sia successo tra settembre e dicembre per provocare un simile, brusco ridimensionamento e troverà gli esperti molto cauti nel dare risposte. Come tutti i fenomeni complessi, anche questa brutta caduta ha cause complesse ma, in estrema sintesi, si può affermare che gli europei si stanno strozzando con le loro stesse mani: pongono vincoli sempre più severi sia alle finanze pubbliche sia all’operatività delle banche. Dicono all’atleta di correre e poi gli tolgono le scarpe adatte alla corsa.
I tagli, più o meno orizzontali, ai bilanci pubblici di pressoché ogni Paese (ormai anche la Germania è entrata in quest’ottica) si uniscono infatti alla crescente impossibilità delle banche di fare il loro mestiere per mancanza di materia prima: siamo in presenza di una vera e propria carestia di liquidità, determinata da norme che, nel tentativo di blindare le banche di fronte alla prospettiva di una crisi, finiscono per rendere più probabile questa crisi per le difficoltà sempre più acute dei debitori, non blindati, delle banche stesse.
Chi aveva scommesso sulla capacità del Cancelliere tedesco, Angela Merkel, di mediare all’ultimo minuto tra posizioni diverse non può non soffrire una cocente delusione: dicendo «no» agli eurobonds i tedeschi hanno reso più ripida la strada verso la stabilità di bilancio dei loro partner europei e si stanno assumendo una responsabilità storica di portare l’Europa in acque sempre più difficili e di allontanare in maniera inaccettabile le prospettive di ripresa. Contemporaneamente nulla è stato fatto né si prevede di fare in merito al funzionamento dei mercati finanziari che continuano a condurre la danza di ballerini sempre più stanchi quali sono gli Stati europei.
In una simile situazione i rimedi sono psicologici prima che tecnici: occorre cominciare a pensare non tanto a come si gestisce una crisi ma come si esce da una crisi. Non tanto a come si può arrivare nudi alla meta, senza deficit e senza crescita, ma a come si possono rendere sostenibili i debiti, a come si può fare del mercato finanziario il proprio strumento, non il proprio padrone. E’ un discorso politico prima che tecnico che purtroppo lascia i politici europei spauriti e senza parole.
La Stampa 16.12.11