attualità, politica italiana

"Bossi, il richiamo della foresta", di Francesco Merlo

Il governo Monti ci ha restituito la Lega nella sua oscena verità. Il Calderoli che urla e fa pernacchie in Parlamento è molto più vero del Calderoli vicepresidente del Senato lodato per la sua correttezza notarile persino da Anna Finocchiaro. Maroni e Gianluca Bonanno, Roberto Castelli e Fabio Rainieri sono molto più se stessi come ruspante ed eversivo presidio da osteria che come classe di governo.

E bastava osservare la felicità e il piacere che provavano nell´insultare Fini e le Istituzioni per capire che è un ritorno alla natura, lo stesso richiamo della foresta che spinge Bossi a liquidare Berlusconi con il massimo della raffinatezza di cui è capace: «Se lo vedo, mi metto a ridere».
Ma se è vero che Berlusconi è grottesco è anche vero che l´altro è ormai patetico come randagio della politica italiana. La malattia trasfigura e persino affascina ma in politica è capriccio, piedistallo, messa in scena, indifferenza o pietà: non più consenso, ma colore. E bisogna ricordare come i due leader si toccavano, e gli sguardi d´intesa con i quali si scambiavano la pelle, e la tracotanza plebea con cui Bossi ogni lunedì faceva il suo ingresso nella villa pacchiana del brianzolo, e quando rifiutava il bitterino e le tartine al caviale e chiedeva invece Coca-Cola e pizza.
Berlusconi, ogni volta che parlava alla Camera, se lo metteva al fianco per meglio rappresentare l´alleanza e l´amicizia. E Bossi gli offriva sì la sua attenzione ma involontariamente gli partiva una raffica di sbadigli alla quale rimediava con pugni di incoraggiamento sul braccio (dolente) di Berlusconi. Oggi Bossi è tornato ai tempi del Berluskaz e del Berlsuskaiser, i tempi dello slogan (strumentale?) dalemiano sulla Lega «costola della sinistra», ma le loro facce non sono più le stesse, definitivamente corrose dall´acido del potere. Grottesco e patetico sono le due facce della stessa decadenza.
Ma gli altri leghisti sono di nuovo fedeli alle proprie facce mentre insolentiscono Monti, manipolo di piazza, movimentisti e situazionisti sbracati ma meno indecenti di quando al governo applicavano il delirio creativo e razzista: dal permesso di soggiorno a punti al reato di clandestinità, dall´anagrafe dei barboni alla banca del dna e alle ronde.
C´è una parentela di linguaggio, una complicità tribale tra l´eversione istituzionale della Lega e le tragedie di Firenze e di Torino. Non perché sia di per sé eversivo lo schiamazzo d´opposizione in Parlamento. Quella dei cartelli scritti con il computer è la stessa tecnica di folclore parlamentare usata dall´Italia dei Valori, e l´insulto è stato praticato anche nei tempi più nobili della Prima repubblica. Ma qui, nel marasma della crisi economica più grave del dopoguerra, c´è il contesto velenoso della secessione come orizzonte: l´interminabile brontolio razzista di Radio Padania Libera, gli sputacchi sugli immigrati e i poveri, l´isteria dell´ordine e della spazzatura umana che ingombra le strade. Dove hanno potuto, gli amministratori leghisti hanno proibito l´elemosina, vietato le panchine ai clochard, usato il dialetto come arma sociale. E ora in Lombardia hanno aperto i «caffè padani», riservati alla clientela del nord: «Non vogliamo romani», «Serviamo aperitivo a base di maiale». Bossi ha annunziato che presto batteranno moneta padana «e Tremonti sarà con noi». Un dirigente della Lega è stato costretto a dimettersi perché hanno scoperto che aveva affittato un locale ad un turco che ne farà una bottega di kebab.
Il razzismo non è più quello novecentesco: l´eugenetica, il segregazionismo, la purezza ariana, Lombroso e De Gobineau. Paghiamo il prezzo del nostro ritardo multietnico ed è probabile che la crisi economica ingigantirà il conflitto sociale mentre il nativismo di Bossi, che invita la plebe del Nord a gettare il tricolore nel gabinetto, assorbe il neomeridionalismo che si disperde in un inferno di sigle separatiste, movimenti neoborbonici, leghe autonomiste.
In questo scenario di babele plebea, il raid di Torino contro il campo dei Rom e le ossessioni del ragioniere di Firenze che ha ucciso due senegalesi e si è sparato, sono follia. Ma la ragione sociale di questa follia non è il fascismo, il saluto romano, la camicia nera. Nella testa del ragioniere non c´era la Firenze di Pavolini e Malaparte, e neppure le squadracce di Farinacci. C´era invece la Firenze deformata in città mussulmana da Oriana Fallaci che raccontava che gli immigrati facevano pipì sul Battistero, c´è la rabbia contro l´Eurabia e l´orgoglio del proprio territorio, l´ossessione dei barbari a Santa Croce, la voglia di armare il crocifisso, c´è Savonarola che non si scaglia più contro i vizi ma contro i forestieri africani. Ecco uno scampolo della Fallaci in crociata contro la moschea, in un´intervista al New Yorker: «Se sarò ancora viva andrò dai miei amici di Carrara, la città dei marmi. Lì sono tutti anarchici. Con loro prendo gli esplosivi e faccio saltare in aria la moschea. Non voglio vedere un minareto di 24 metri nel paesaggio di Giotto quando io nei loro Paesi non posso neppure indossare una croce e portare una bibbia. Quindi lo faccio saltare per aria». Ed è importante ricordare che gli anarchici di Carrara la smentirono con un comunicato di diffida. La Fallaci che, giovane e moderna, era stata un faro di cultura liberale e libertaria venne invece brandita come un manganello dalla Lega e da Forza Italia. Ecco: se un ragioniere triste e disturbato che si nutre di letteratura gotica e si sente un emarginato di destra, un esule in patria, insomma se un Casseri, con le sue pistole nascoste, prende sul serio quelle pagine della Fallaci su Firenze, ebbene quanto meno si sente in compagnia.
Va anche detto che un pamphlet razzista ben scritto è pur sempre un libro di qualità. E però la psicopatologia di massa non si specchia mai nella solitudine di un libro ma nelle battaglie giornalistiche che non solo a quel libro sono ispirate. Martellanti campagne stampa hanno avvelenato i pozzi al punto che non ci è più consentito distinguere. Non ci possiamo neppure permettere di studiare i rapporti tra la criminalità e l´immigrazione perché appunto la Lega e i tanti fallaciani di complemento hanno spacciato lo scontro di civiltà come droga quotidiana, e tutti si sentono in diritto di interpretare il proprio Clash of Civilizations, con la Santanché che strappa il velo alle ragazze che vanno in moschea, Calderoli che porta i maiali e sparge l´urina sul suolo della preghiera mussulmana, Borghezio che trovò le idee dello stragista Breivik: «Comunque condivisibili».
Ecco perché c´è un rapporto tra la risata eversiva di Calderoli e delle truppe leghiste in Parlamento e le cupisssime follie di Torino e di Firenze. Non so se possiamo chiamarli cattivi maestri. Impegnati nella guerriglia parlamentare contro Monti sicuramente mettono al riparo le loro cattive coscienze dandoci in cambio quattro streghe neofasciste da bruciare.

La Repubblica 16.12.11

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“Lega di lotta (interna)”, di Rudy Francesco Calvo

Perché il Carroccio perde la testa in parlamento? Resa dei conti tra maroniani e non
In via Bellerio non hanno mai avuto troppa fiducia nei sondaggi. Le telefonate a Radio Padania e le manifestazioni pubbliche (da Pontida in giù) hanno sempre rappresentato il termometro attraverso il quale Bossi and company misurano il grado di consenso attorno alla Lega (e ai suoi singoli dirigenti, Maroni in testa) in periodo preelettorale.
Così, mentre i numeri forniti dai vari istituti statistici indicano un Carroccio in perenne discesa, la reazione non si fa attendere: domenica 22 gennaio, elmo in testa e bandiera in mano, il popolo padano è convocato in piazza Duomo a Milano per protestare contro il governo Monti e la manovra salva- Italia, che sarà approvata oggi in prima lettura alla camera. «Governo ladro, giù le mani da casa e pensioni», è lo slogan.
Se Di Pietro, come sembrerebbe, è pronto a tornare sui propri passi pochi giorni dopo aver votato la fiducia all’esecutivo, i leghisti ormai più che opposizione fanno pura e semplice bagarre. Per avere più visibilità nell’elettorato, ovviamente, ma anche per nascondere una conflittualità interna destinata comunque ad arrivare presto alla resa dei conti.
La foto pubblicata in prima pagina sul Financial Times di ieri (con le immagini dei senatori leghisti che mostrano i loro cartelli nell’aula di palazzo Madama) li incoraggia a proseguire su questa strada: alla camera il loro ostruzionismo è andato avanti per tutta la notte di mercoledì e anche ieri mattina, accompagnato da una nuova bagarre, che portato all’espulsione di due deputati, Gianluca Buonanno e Fabio Rainieri, e a un accenno di rissa con i colleghi di Fli.
Lega di governo, addio, insomma. I padani sono tornati alla lotta dura e pura. Il governo Monti, da questo punto di vista, offre il destro al Carroccio per rispolverare tutti i suoi temi tradizionali: europeista, “tecnocrate”, liberalizzatore (per il momento più nelle intenzioni che nei fatti), solidale e unitario, l’attuale esecutivo rappresenta tutto ciò che la Lega ha sempre combattuto. Con il vantaggio di non dover più sottostare a vincoli di alleanze: il rapporto con il Pdl appare infatti sempre più flebile.
Non è un esito improvvisato.
Ci ha lavorato a lungo Roberto Maroni. L’ex ministro dell’interno sapeva di dover lasciare tempo al tempo quando, dopo l’astensione leghista che ha dato il via libera all’arresto di Alfonso Papa, tutti lo indicavano ormai come il vero leader del Carroccio. Pian piano ha vinto moltissimi congressi locali, ha curato i rapporti con gli “indisciplinati” veneti, ha accresciuto il suo radicamento nella base. Sapeva che Berlusconi non sarebbe durato a lungo e che allora i margini di movimento sarebbero aumentati, per il suo partito e soprattutto per lui. La fine dell’asse tra il Cavaliere e Bossi indebolisce entrambi e dà spazio a chi ha altri progetti in mente.
La linea autonomista per le elezioni amministrative, a esempio, propugnata dai maroniani, sta prendendo sempre più piede e potrebbe portare a esiti clamorosi in primavera.
Ma da gestire ci sono anche gli equilibri interni, di cui lo scontro per la poltrona di capogruppo alla camera è solo il vertice visibile di un gigantesco iceberg. Destinato a venire comunque a galla nel 2013, con le prossime candidature alle tanto deprecate cadreghe romane. Ma è meglio non correre troppo e lo stesso Maroni, d’altra parte, non ha intenzione di accelerare adesso.
Il tempo è tutto dalla sua parte. Nel frattempo, Bossi, Calderoli e il cerchio magico facciano tutto il baccano che vogliono. Lui continuerà a lavorare in silenzio.

da Europa Quotidiano 16.12.11

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