Tutti a casa e non si capisce ancora se questa da Bagdad sia una fuga o una vittoria. È finita con un sospiro, non con un botto, la guerra che avrebbe dovuto inaugurare il “nuovo secolo americano” nel mondo. Da ieri, nessun soldato americano morirà più per Bagdad. Se ne stanno andando gli ultimi 4.500 rimasti, in una crudele ironia dei numeri: sono tanti quanti coloro che già se ne erano andati dal 2003. Da morti.
È finita in silenzio, quasi di nascosto, tra l´indifferenza e l´imbarazzo. Un´Apocalisse in bianco. Nessun volo di elicotteri dal tetto della ambasciata come nella Saigon 1975, con i disperati aggrappati alle porte. Niente folle assiepate per fuggire dal nemico in arrivo, nella Bagdad dell´addio alle armi americane. Soltanto un cortile interno protetto da mura altissime per evitare razzi e cecchini, accompagnati dalle note dell´inno eseguite, con qualche straziante stonatura di trombe, da una piccola banda di sette marine musicanti in uniforme mimetica da fatica, ha salutato la più dolorosa, costosa, sanguinosa avventura militare americana dopo il Vietnam.
Per un evento che da otto anni e mezzo, da quando i 150 mila soldati del generale Tommy Franks attraversarono la frontiera con il Kuwait nel marzo del 2003 e marciarono verso la capitale, era atteso, invocato, temuto, promesso come una catastrofe o un trionfo il finale è stato malinconicamente banale. Una scena né da inferno vietnamita 1975, né da paradisi europei 1945 con lanci di cioccolato e sigarette alle folle di fanciulle sorridenti ai «liberators», ma una cerimonia privata, tra soldati, davanti a un tavolo di autorità locali e americane ansiose di andarsene ciascuno per i fatti propri. Mentre un gigantesco sergente afroamericano affettuosamente avvolgeva la bandiera bianca con lo stemma della forza di spedizione Usa attorno alla propria asta coprendola, con il rispetto che si deve a un caduto, con la guaina di tela infilata come un profilattico perché non si rovinasse, parlava il segretario alla Difesa. Tutto qui. «Si chiude una fase della storia» ha dovuto dire Leon Panetta per dare un tono epocale a un rito che somigliava più alla fine di un anno scolastico senza gioia e cappelli lanciati in aria, che all´atto finale di una lunga tragedia. Il cui vero finale ancora non conosciamo.
Non ci saranno parate, bande più affiatate di quei temerari in uniforme che soffiavano lo «Star Spangled Banner», l´inno nelle loro incerte trombette, lungo la strada per l´aeroporto dal quale il resto dei 170 mila che furono lo zenith dell´occupazione dopo la «surge», la mini scalata ordinata da Bush per tamponare il disastro dei primi tre anni, s´imbarcheranno per tornare a casa e cercarsi, come tutti i reduci, un futuro nella vita civile. E dimenticare Bagdad, Falluja, le «mine improvvisate» e le jeep saltate in aria. Ma non ci saranno neppure grida di «Yankee go Home!», cortei di manifestanti anti americani, in una città che dimostra anche ora, nel momento del ritiro finale, di avere subito una guerra senza averci mai davvero partecipato. A lungo, e in molte occasioni, gli uomini, le donne, i bambini della «terra fra i due fiumi», dell´Iraq sono sembrati più passanti colpiti dal fuoco incrociato di altri più che attori. Figuranti per un massacro, in quantità che nessuno ha ancora calcolato.
Dall´abbattimento della statua di Saddam Hussein sulla piazza del Paradiso a Bagdad, rovesciata da soldati e da mezzi cingolati americani nell´aprile del 2003 per gli obbiettivi della telecamere («la sceneggiata più artificiale organizzata dall´innalzamento della bandiera a Iwo Jima» scrisse Robert Fisk) al mesto addio di ieri, questa guerra è sempre apparsa come una guerra americana in una terra che oscillava tra l´indifferenza e l´ostilità, tra la paura e il sangue versato in migliaia di attentati che uccidevano iracheni innocenti per colpire le forze di occupazione. Né i GI´s, l´Esercito, i marine, gli avieri e aviatori che combattevano e morivano a migliaia – almeno 150 mila i feriti che pesano sul bilancio della Difesa avendo diritto a cure mediche per il resto della loro vita – sapevano bene contro chi combattessero. Né gli iracheni che nella grande maggioranza non partecipavano né alla liberazione né alla resistenza capivano se il nemico fossero quegli stranieri in uniforme della confusa «Coalizione di Chi Ci Stava» – americani, ma anche inglesi o italiani che pagarono la loro tasse di vite umane a Nassiriya – o quegli insorti che insanguinavano le loro strade e i loro mercati.
Come nel concertino finale dei marine per l´ammainabandiera, così in tutta l´operazione «Iraqi Freedom» se lo spartito era chiaro, abbattere il regime, cambiarlo con uno favorevole agli Stati Uniti e legittimarlo con elezioni, l´esecuzione è stata stonata fin dalle prime stecche, dovute a quel viceré, Brenner, nominato da Bush, Cheney e Rumsfeld per rivelarsi un disastro. «Non dimenticheremo mai il sacrificio fatto dai nostri ragazzi e ragazze in questa battaglia» ha mentito Leon Panetta nel fervorino d´addio, sapendo benissimo che anche loro entreranno nell´immenso limbo del tempo che appanna ogni ricordo, anche quando l´immancabile memoriale sarà aggiunto nella spianata di Washington fra quelli di altre guerre.
Era importante, per lui, Panetta, ma soprattutto per il suo «boss», Barack Obama che la promesse di chiudere almeno questo fronte che tanto ha contribuito a sventrare il bilancio del governo americano per almeno mille miliardi di dollari, fosse mantenuta in tempo per l´avvio della campagna elettorale, che partirà nei primi giorni di gennaio 2012. Se fosse importato ancora a qualcuno, negli Usa, dell´«esportazione della democrazia», della «Guerra al Terrore» e della «Libertà per l´Iraq» quello di ieri sarebbe stato un successo, o almeno una spina in meno nella zampa di Barack che zoppica verso le elezioni di novembre. Ma c´erano pochi soldati in uniforme mimetica, una mezza dozzina di autorità civili e una banda di dilettanti per «chiudere una pagina della storia» con la stecca del trombettiere. Poi la musica è finita e tutti a casa. Meno gli iracheni, che in casa loro, o in quel che ne resta, già sono.
La Repubblica 16.12.11