Sulle pagine dell’Unità, all’ interno del PD e del più ampio mondo della sinistra è in corso un dibattito sulla natura del governo Monti: è un governo di destra? Conservatore? Progressista? È il «nostro governo»? Il dibattito appare per certi versi surreale. Il governo Monti infatti è nato come governo di salvezza (unità) nazionale, ed è sostenuto in Parlamento da tutte le forze politiche con l’eccezione della Lega e dell’Idv, quindi non può che rappresentare (nella composizione e nella linea) un punto di equilibrio, un minimo comune denominatore, delle forze politiche e degli interessi rappresentati. Il governo Monti quindi è un governo di tutti che, in quanto tale, potrebbe anche diventare improvvisamente di nessuno. Èquesto il tentativo in corso ed è bene per tutti che possa riuscire.
Analoghi interrogativi riguardano le posizioni di Monti. Ho conosciuto per la prima volta personalmente l’attuale presidente del Consiglio molti anni fa negli Stati Uniti, dove ambedue studiavamo in diverse università, e ho avuto modo di incontrarlo successivamente più volte e di lavorare insieme, io da ministro e lui da commissario europeo. Ebbene al di là della indiscussa competenza, del rigore personale, dell’equilibrio e della prudenza nell’azione, dell’autorevolezza che si esprime quasi come un dato caratteriale, Monti è, a mio modo di vedere, un tipico rappresentante di una certa borghesia lombarda, cattolica, moderata ma molto attenta al sociale. Da commissario europeo, oltre a combattere i monopoli, cercò di limitare la concorrenza fiscale dannosa tra gli Stati, e provò ad introdurre una tassazione minima uniforme per i redditi da capitale.
Favorevole ad una finanza pubblica in equilibrio, Monti riteneva tuttavia che le spese di investimento potessero essere finanziate in disavanzo; anche nella sua prima uscita in Europa da primo ministro ha sostenuto una linea volta a coniugare l’austerità (di alcuni) con lo sviluppo per tutti. In sostanza Monti è il tipico personaggio con cui la sinistra riformista (e non solo) può trovare in più di una occasione motivi di accordo e convergenza. Smettiamola quindi con questa sciocchezza del banchiere conservatore e cerchiamo di analizzare i fatti.
Grazie soprattutto al contributo dei governi Berlusconi a partire dal 2001 l’Italia era (e rimane) a rischio di default, cioè di fallimento. Vale a dire una situazione in cui lo Stato non sarebbe più in grado di onorare i suoi impegni (salari, pensioni, interessi, ecc.) con conseguenze devastanti per l’intera economia mondiale. Pur di evitare tale eventualità qualsiasi intervento, per quanto invasivo e doloroso, risulta giustificato oltre che necessario. Ed in proposito va innanzi tutto sgomberato il campo dall’idea che un aggiustamento delle dimensioni necessarie a salvare l’Italia potesse essere messo in conto solo «al 10% più ricco» del Paese. La manovra nel suo complesso appare abbastanza equilibrata; certo è molto generosa per le imprese e molto severa per le famiglie. Dal punto di vista della sinistra si poteva incidere maggiormente sui più abbienti. Ma non bisogna dimenticare che la maggioranza parlamentare è quella che è. Certo, un’imposta sulle grandi fortune poteva coesistere con la nuova Ici; ma anche solo la nuova Ici è un prelievo che, contrariamente a quanto alcuni sostengono, colpisce i ricchi parecchio più dei poveri: ed infatti i «ricchi» (e i vecchi) si caratterizzano proprio per avere più patrimonio mobiliare e immobiliare dei «poveri» (e dei giovani), e in misura crescente
con il reddito. Certo, l’imposta si poteva strutturare meglio rendendola molto più equa facendo riferimento ai prezzi di mercato e differenziando l’entità dell’abbattimento per la prima casa a seconda del valore medioimmobiliare di ciascun comune o zona; ma in ogni caso il ritorno a una imposizione patrimoniale è una novità positiva. Certo, sull’evasione fiscale si poteva (e a mio avviso si doveva) fare di più. Tuttavia il fatto che sia apparso (o per lo meno che si sia venuti a conoscenza) dopo le due conferenze stampa di Monti e ministri nelle quali non se ne era fatta menzione, l’articolo 11 del decreto che prevede la possibilità di trasmissione al fisco dei conti finanziari e bancari dei contribuenti, è un fatto positivo.
Per quanto riguarda le pensioni, vorrei ricordare che nel 1995, nel corso della discussione sulla riformaDini, la Cgil e il Pds avevano sostenuto la soluzione del pro-rata per tutti, poi prevalse, un altro orientamento che ha fatto sì che la spesa pensionistica abbia continuato a crescere molto più del pil, a scapito di altre spese, in particolare quelle per l’istruzione. Anche dopo la manovra di agosto la spesa previdenziale
è l’unica a mantenere un trend di crescita previsto positivo. Tale stato di cose non è accettabile, e non solo perché insostenibile finanziariamente, ma perché non è equo. Certo, il blocco delle indicizzazioni, nonostante gli aggiustamenti introdotti, è doloroso e personalmente avrei preferito il ricorso
a un contributo di solidarietà da parte dei pensionati di anzianità. Ciò detto, però, l’orizzonte cui deve guardare la sinistra nel nostro Paese va ben al di là della manovra in atto. Essa è necessaria per (cercare di) salvare il Paese, ma i nostri compiti vanno oltre questo pur indispensabile obiettivo. Vi è
da parte di alcuni la tendenza ad identificare e risolvere nell’equilibrio dei conti il fine, ultimo e unico, della riflessione e dell’azione economica e politica, se non della stessa ragione d’essere, del Pd. Così non è perché nei prossimi anni si dovranno affrontare problemi enormi, interrogativi molto seri che pongono primarie questioni di carattere politico etico e culturale soprattutto per i Paesi avanzati del mondo.
Dopo la catastrofe finanziaria recente la credibilità di un modello di sviluppo iperliberista, che produceva ricchezza ipotecando il futuro, fino al big bang del 2007-08, è venuta meno. Con cosa sostituirlo? Nella storia del capitalismo esiste
un solo periodo in cui non si sono verificate crisi finanziarie rilevanti: quello compreso tra la fine della guerra e l’inizio delle politiche di deregolamentazione di Reagan e Thatcher. Quel modello entrò in crisi sia per «eccesso di successo», sia perché ormai percepito come un freno ad una crescita ulteriore
(la globalizzazione ). Lo abbiamo quindi sostituito con un modello aggressivo, individualista, rapace che alla fine ha portato una seria ipoteca sul nostro futuro; come uscirne?
Certo non si può tornare a Bretton Wods, ma un nuovo sistema di regolazione dell’economia internazionale è necessario. Che ne pensiamo? Come ovviare alla perdita di peso e di autorità del paese tradizionalmente leader nel dopoguerra? Con quale assetto multipolare? Con quale nuovo equilibrio di interessi? Con quale ruolo dell’Europa? Con quale sistema monetario internazionale? E ancora, quale deve essere il ruolo della politica in futuro? Il governo del mond o può continuare ad essere affidato solo ai banchieri (e quando serve ai generali)? E come superare l’imbastardimento e l’imbarbarimento della politica attuale che non sembra, e non è, assolutamente all’altezza dei nuovi compiti? Non è un caso che, nonostante tanto desideriodi «rottamare» i vecchi, se l’Italia si salverà, il merito sarà di un anziano signore, Giorgio Napolitano, e – speriamo- del non più giovanissimo Mario Monti. Il problema comunque non è solo italiano: basta guardarsi intorno. E non sembra essere un problema di leggi elettorali. Né va sottovalutato che il problema attuale dell’ assetto economico vigente sembra ancora una volta un problema di legittimazione: un sistema economico che non appare più ingrado di produrre ricchezza e di distribuirla equamente, di fornire occupazione ai giovani, di assicurare
benessere e opportunità a tutti in un contesto di libertà e democrazia (come era stata capace di fare in passato) può diventare oggetto di contestazione e rifiuto e riportarci a soluzioni autoritarie, autarchiche e nazionalistiche e regressive.
Siamo sicuri che la linea deflazionistica imposta dalla signora Merkel e adottata in Europa sia quella giusta? O hanno ragione
gli economisti di maggiore fama internazionale (praticamente tutti) che la ritengono molto pericolosa per il futuro dell’Europa e dell’Euro e quindi da cambiare rapidamente salvo riconoscere che per i Paesi come l’Italia una manovra di riequilibrio serio era comunque inevitabile? Si potrebbe continuare, tuttavia mi sembra evidente che la sinistra italiana dovrebbe cominciare ad occuparsi più seriamente di questo tipo di questioni e guardare oltre la manovra al futuro, e cercare di partecipare al dibattito in corso a livello internazionale, piuttosto che dividersi tra nostalgici della socialdemocrazia e nostalgici della terza via. Cerchiamo di ragionare sul nostro futuro e non solo sul passato
L’Unità 15.12.11