CON la rimozione di Augusto Minzolini si chiude finalmente lo scandalo più grave nella storia del Tg1. Con il suo trasferimento ad “altro incarico equivalente” non si risolve però certo il futuro prossimo della principale testata giornalistica del servizio pubblico. Né tantomeno quello della Rai post-berlusconiana.
Legge alla mano, dopo il rinvio a giudizio del “direttorissimo” per peculato, la sua sostituzione era diventata ormai una scelta obbligata. E tuttavia la decisione di affidare ad interim la guida del Tg1 a un “pensionando”, come lo definisce lo stesso sindacato interno con una punta di disprezzo generazionale, risponde a una logica di compromesso al ribasso condizionata dai precari equilibri su cui si regge la tv di Stato. Un direttore provvisorio, insomma, al posto di un ex direttore “equivalente”, al quale ben si attaglia l´etichetta di un farmaco generico.
Di fronte all´accusa di peculato, e alla conseguente necessità per l´azienda di costituirsi parte civile contro il suo dipendente, la responsabilità degli amministratori imponeva la destituzione di Minzolini. E con l´eccezione di Alessio Gorla, colpito non a caso a livello familiare dalla “macchina del fango” dei giornali filo-berlusconiani proprio alla vigilia del voto nel cda, i rappresentanti del centrodestra che hanno cercato fino all´ultimo di difendere il “direttorissimo” saranno chiamati verosimilmente a risponderne anche sul piano giudiziario. Tra questi, spicca il nome di Angelo Maria Petroni, indicato a suo tempo dal ministero dell´Economia, già condannato dalla Corte dei Conti al risarcimento di 11 milioni di euro – insieme ad altri quattro consiglieri – per la multa causata dalla nomina di Alfredo Meocci a direttore generale, nonostante la sua incompatibilità in quanto ex commissario dell´Autorità sulle Comunicazioni.
Toccherà alla magistratura giudicare anche il comportamento di Minzolini. Ma la sua linea difensiva, fondata sulla presunta legittimità delle spese sostenute con la carta di credito aziendale, è palesemente contraddetta dalla mossa con cui s´era affrettato a restituire all´azienda l´importo di circa 65 mila euro. In ogni caso, la sua responsabilità maggiore resta quella professionale di aver svilito l´autonomia e la credibilità del telegiornale, provocando un crollo degli ascolti e presumibilmente un danno nella raccolta pubblicitaria.
Nella difficile transizione avviata dal “governo di impegno nazionale”, l´assetto della televisione pubblica resta dunque in bilico fra una cronica subalternità al potere politico e l´aspirazione diffusa a un definitivo affrancamento aziendale. È assai improbabile che questo Parlamento, viziato dalla prassi della compravendita, sia in grado di approvare una riforma organica della Rai. Ma allora spetta all´esecutivo, e in particolare al ministro dello Sviluppo economico che sovrintende anche alle Comunicazioni, prendere l´iniziativa per assicurare intanto all´ente di Stato una condizione minima di funzionalità e rispettabilità.
La Repubblica 14.12.11