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"Svolta contro le doppie indennità. Ma tanta calma sui costi della politica", di Gian Antonio Stella

«Se c’era solo da arza’ ‘a bbenzina ce tenevamo Pomicino». Prima che qualcuno faccia su di lui la battuta che Francesco Storace dedicò al governo simil-tecnico di Lamberto Dini (delegato alle faccende rognose con la diffida a occuparsi d’altro) è bene che Mario Monti prenda il toro per le corna. Perché se pensa di poterla spuntare con la pazienza e la saggezza, passo passo, rischia di essere rosolato allo spiedo dai professionisti dello status quo. Finché, fatte le cose elettoralmente più antipatiche, gli diranno: «Grazie professore…».
Ma come: non aveva esordito alla Camera, nel ruolo di premier, parlando di una situazione gravissima, di un compito «difficilissimo» («sennò ho il sospetto che non mi troverei qui oggi»), di «tempi ristrettissimi»? Non aveva spiegato che «di fronte ai sacrifici che dovranno essere richiesti ai cittadini, sono ineludibili interventi volti a contenere i costi di funzionamento degli organi elettivi»? Non aveva dichiarato indispensabile, da subito, «stimolare la concorrenza, con particolare riferimento al riordino della disciplina delle professioni» e alle «tariffe minime»?
Dirà: «Non mettetemi troppa fretta, ho appena iniziato». Giusto. Il guaio è che la nostra storia dimostra che anche quando (quasi sempre per disperazione) si verificano condizioni in qualche modo «magiche» per una vera svolta, questi momenti durano poco. Pochissimo. Un attimo, e sono già alle spalle. Se certe cose non le fai subito, addio. E non basta prendere (lodevolmente) il treno invece che un volo blu per tornare da Roma a Milano come ha fatto il «Prof.» per prolungare una luna di miele con gli italiani che appare, purtroppo, parzialmente compromessa.
Come si è mosso, su certe cose, è stato subito stoppato dalla sollevazione di permalosi conflitti di competenza. Per dirla alla romana, gli hanno ricordato: «Nun je spetta». L’adeguamento ai parametri europei degli stipendi, delle diarie, dei rimborsi dei parlamentari? «Nun je spetta». La riduzione delle spese correnti del Parlamento che sugli affitti delle dependance spende oggi 41 volte più che trent’anni fa? «Nun je spetta». Il contenimento di certe megalomanie spendaccione delle Regioni? «Nun je spetta».
La riforma degli Ordini professionali? Rinviata. Nonostante lo stesso Monti, avesse denunciato l’anno scorso sul Corriere che «non si tratta di tenaci fiammelle rivendicative fuori tempo» ma di «corposi interessi privilegiati che, pur di non lasciar toccare le loro rendite, manovrano un polo contro l’altro: veri beneficiari del bipolarismo italiano!».
La timida liberalizzazione sul fronte dei taxi? Rinviata, sotto la minaccia di una rivolta dei tassinari tra gli applausi del sindaco di Roma Gianni Alemanno, la cui elezione era stata salutata da un tripudio di gioia degli autisti.
La modesta liberalizzazione della vendita dei farmaci di fascia C? Resistenze fortissime. Come sul versante di una serie di liberalizzazioni per i negozi (orari, distanza dall’uno all’altro, licenze…) per le quali una misteriosa manina aveva cercato di infilare uno slittamento al 31 dicembre 2012, come se la crisi internazionale e le difficoltà dell’euro fossero banali complicazioni congiunturali.
Per non dire del tentativo di smistare le competenze delle Province alle Regioni e ai Comuni così da svuotarle nella prospettiva che il Parlamento, dopo il tormentone, si decida a eliminarle. Non l’avesse mai fatto! Il presidente dell’Upi Giuseppe Castiglione ha mandato una lettera alla Corte dei Conti denunciando il rischio di un «drammatico impatto», di un «caos istituzionale», di «conseguenze drammatiche», di un «blocco totale degli investimenti», di norme «palesemente anticostituzionali» e via così… Toni che non si sentivano dai tempi del «Profeta Emman» che per il 14 luglio 1960 annunciò l’Apocalisse e il diluvio universale e l’arrivo delle Locuste dell’Abisso…
Certo, è difficile cambiare. Complicato. Faticoso. Ma se non ora, quando? Ed è per questo che, davanti ai rischi che il premier resti impantanato tra i veti delle lobby, le incrostazioni clientelari, la pigrizia delle burocrazie, non si può che salutare con sollievo l’annuncio di una svolta che, se portata davvero a termine, sarebbe davvero importante. E cioè non solo il ripristino di un tetto per le retribuzioni dei grandi manager pubblici fissato sul parametro massimo dello stipendio del primo presidente della Corte di Cassazione. Ma soprattutto la regola che i magistrati ordinari, amministrativi, militari e contabili, nonché gli avvocati e i procuratori dello Stato chiamati a lavorare nelle authority o al governo come capi di gabinetto o degli uffici legislativi «conservando il trattamento economico riconosciuto dall’amministrazione di appartenenza anche se fuori ruolo e in aspettativa» non possono «ricevere a titolo di retribuzione o di indennità per l’incarico ricoperto, o anche soltanto per il rimborso delle spese, più del 25% dell’ammontare complessivo del trattamento economico percepito». Traduzione: basta con l’accumulo delle paghe. Una rivoluzione vera. Invocata da tempo. Resta una sola curiosità: questo piccolo mondo di potentissimi funzionari accetterà di fare buon viso a cattivo gioco?

Il Corriere della Sera 14.12.11