memoria, politica italiana

"Dal mare di Ventotene alle brume di Bruxelles", di Federico Orlando

Partiva settant’anni fa, dalle isole pontine, il messaggio degli Stati Uniti d’Europa di Spinelli, Rossi, Colorni, ispirati da Einaudi e dagli illuministi inglesi del Settecento

Deutschland, einig Vaterland, diceva il quarto verso dell’inno nazionale nella Germania comunista. «Sorta dalle rovine,/ rivolta al futuro/ nel bene lascia che ti serviamo,/ Germania, patria unita». Sono versi di una poesia di Johannes Becher. Negli ultimi anni della divisione del paese in Repubblica federale e Rdt, le autorità comuniste evitavano che nelle cerimonie si intonasse anche questa strofa.
Ma, per un beffardo gioco della storia, quando il Muro cominciò a crollare, a intonarla furono i berlinesi dell’Ovest, insieme a quelli di Honecker stanchi di dittatura e di separazione. Con la Germania unificata abbiamo fatto in queste settimane, e non è finito, il braccio di ferro, perché la grande idea europeista cammina ancora su “una sola gamba”, la politica monetaria, secondo la definizione di Massimo Giannini. Che si è chiesto se a un’Europa incapace di visione politica comunitaria basterà il «piccolo passo nella nebbia» fatto a Bruxelles dai 27 meno Inghilterra: cioè la manovra per placare il moloch dei mercati e disinnescare la dinamite dei debiti sovrani.
Il braccio di ferro continuerà, se perfino gli uomini di ferro, i mitici “due Mario”, mandati dall’Italia alla presidenza della Banca centrale e del governo di Roma, hanno dovuto fare buon viso alla suprema lex della contabilità tedesca. Come lunedì scorso ha contestato l’economista Stefano Micossi al governatore: «Finalmente la Bce ha allentato i freni, abbassando il tasso all’1 per cento, e offrendo alle banche nuovi strumenti di finanziamento. Ma l’intervento sarebbe stato meglio accolto dai mercati se Draghi, parlando alla stampa, avesse valorizzato l’aumento della liquidità invece di affannarsi a rassicurare l’azionista di riferimento tedesco sul fatto che gli interventi di sostegno ai mercati dei titoli sovrani sarebbero rimasti modesti».
È a questo che si pensa quando si parla o scrive di “Europa tedesca”? Senza entrare nella risposta, ci limitiamo a prendere atto che «la Germania sta deformando gli assetti istituzionali in maniera pericolosa» e forse s’avvicina per l’Italia, forte di un governo rispettabile, l’ora di «far sentire la sua voce e fermare questa deriva». Problema imprevisto settant’anni fa dai padri del progetto, nato in un’isoletta delle Pontine, degli Stati Uniti d’Europa. Quando, nel maggio 1941, il comunista Altiero Spinelli e il liberal-azionista Ernesto Rossi, in villeggiatura fascista a Ventotene, dopo le reciproche diffidenze cominciarono a concretizzare il manifesto Per un’Europa unita, Rossi ricordò che vent’anni prima il suo maestro all’università, Luigi Einaudi, aveva pubblicato articoli con lo pseudonimo di Junius, sulle vie per sottrarre l’Europa ad altri secoli di sanguinose guerre fra stati, in aggiunta a quelle fra sette religiose e alle rivolte sociali.
Complice o inefficiente la polizia fascista, Einaudi era riuscito a spedire a Rossi due volumetti di pensatori federalisti inglesi del Settecento, che per i confinati furono una rivelazione: l’unità del continente, avevano spiegato i precursori, «non può essere un’ideologia», si tratta invece di creare «un potere democratico europeo eliminando contemporaneamente ogni autarchia economica».
Il giovane socialista Eugenio Colorni e sua moglie Ursula Hirschmann (diventata musa e compagna di Spinelli dopo che il giovane Eugenio, redattore capo dell’Avanti! clandestino, fu ucciso dalla banda Cock a Roma nel 1944), portarono il manoscritto del Manifesto a Melfi, alla fine del 1941. Da quel confino lucano, il documento s’irradiò nei movimenti antifascisti e poi di resistenza in Italia e in Europa, trovandovi quel successo che non aveva riscosso tra i confinati di Ventotene: chi più chi meno legati ai miti dell’Urss, del marxismo, della repubblica, della lotta di classe, dello stato guida.
Ma né i settecentisti inglesi, né Einaudi dei primi anni Venti, né Spinelli Rossi e Colorni nel maggio-autunno del 1941, avrebbero immaginato un cammino così arduo per un disegno sia pure di lunga prospettiva: col quale l’Europa si sta misurando in concreto da sessant’anni, da quando nacque tra sei paesi prostrati dalla guerra la Comunità europea del carbone e dell’acciaio.
Via via evolutasi in Mec, Unione, Comunità, fino alle vicende di questi giorni, tra default, bond, eurobond, spread, che già nelle loro “orribili favelle” dimostrano come quella ch’era stata individuata causa profonda del disastro europeo, la sovranità assoluta degli stati nazionali, sia ancora viva, se non proprio vegeta.
Anche gli europeisti di altri paesi (per convinzione o per opportunità) non avrebbero allora immaginato tante difficoltà al cammino del loro sogno: non solo la dichiarata preferenza di Churchill per il “gran largo”, nel quale voleva che la nave di sua maestà continuasse a navigare (Commonwealth, Stati Uniti, Europa, con l’Inghilterra come perno); non l’intransigente ostilità di De Gaulle a un’Europa (Europa delle patrie, non patria europea) eterodiretta dall’altra costa della Manica.
Echi di questa cultura sono risuonati nei giorni scorsi a Bruxelles, negli interventi di Sarkozy e perfino nel suo gollistico rifiuto di stringere la mano a Cameron, a sua volta degno continuatore delle preferenze di Churchill e della Thatcher; col Reno che torna a gonfiare le acque, anche se nascoste dalle recite di Sarkozy sul presunto asse franco-tedesco, con cui la Germania maschera il suo “imperialismo” e la Francia la sua debolezza.
Secoli di guerre ed egoismi, e secoli di cultura ribelle. Uno storico amatissimo, il maggior discepolo di Croce Federico Chabod, scriveva nella sua Storia dell’idea d’Europa: «Così come noi l’abbiamo accolta, quest’idea è tipica dell’elaborazione settecentesca: i motivi già accennati nel Cinquecento solo ora ricevono forma compiuta e definitiva. Il sentire europeo è un sentire di schietta impronta illuministica».
Poi, strutturata e precisata, quell’idea era stata messa alla prova dalla “guerra civile europea”, iniziatasi nel 1914 con le rivoltellate di Sarajevo e terminata nel 1945 nel bunker di Berlino. Contro i crimini di quella trentennale guerra civile, più che il processo postumo di Norimberga, valse forse la cultura degli europeisti, che denunciavano il vero e massimo mandante del crimine: lo stato nazionale, con la sua sovranità illimitata.
È vero che gli Stati uniti d’Europa restano una soluzione “eurocentrica” (Piero S. Graglia, Altiero Spinelli, Il Mulino) ma i fatti di questi mesi confermano come desiderare di più significherebbe desiderare il troppo: anche se lungimirante resta l’invito di Emma Bonino che, da ministra degli affari europei e del commercio estero del secondo governo Prodi, lanciò da Ventotene l’idea di tradurre in arabo il Manifesto: «Ammonire che patria e democrazia si costruiscono tra gli stati e non negli stati, sarebbe un vero insegnamento». Forse precoce, come quelli dei federalisti inglesi del Settecento. Ma la storia cammina a passetti piccoli sulla spinta di grandissime idee.
E poi bisogna sempre avere un po’ di fiducia nella cultura dei grandi popoli: compreso il pragmatismo della Gran Bretagna, che, assicura Sergio Romano, s’accorgerà quanto sia sempre più difficile saltellare su un doppio binario, ora europeo ora atlantico, e prima o dopo farà scelte realistiche. «I paesi dell’euro, nel frattempo, non hanno l’obbligo di aspettarla».

da www.europaquotidiano.it