Che fine ha fatto il «popolo europeo»? Dov’è il demos europeo su cui sino a qualche anno fa si sono esercitati filosofi politici, giuristi costituzionalisti e pubblicisti? Intimiditi dalle brutali oscillazioni delle Borse, schiacciati dagli spread, frastornati dai toni apocalittici di politici e giornalisti, tartassati in modo più o meno consensuale dai rispettivi governi riemergono i popoli nazionali tradizionali. In carne ed ossa, con i loro giudizi e pregiudizi reciproci che si tenta invano di esorcizzare, correggere, rivisitare.
Pensiamo agli imbarazzi con cui tedeschi e italiani oggi si guardano attraverso i loro giornali. È inutile protestare contro i giornalisti, che spesso scrivono sciocchezze da una parte e dall’altra. Rispecchiano una diffusa situazione sgradevole.
Prendiamo atto che – a dispetto della retorica diffusa a larghe mani in questi anni – non si è formato affatto un «popolo europeo» inteso come comunità politica solidale quale anni fa si sperava fosse in fase di gestazione, se non di sviluppo. Il processo che avrebbe dovuto faticosamente costruire questo popolo unitario e solidale sembra ora essersi interrotto. È stupefacente l’emarginazione dell’unica rappresentanza democratica comune degli europei, il Parlamento europeo.
In questi mesi di convulsa ricerca di una uscita dalla crisi è rimasto tagliato fuori da ogni ruolo decisionale.
Ma la situazione è davvero così senza prospettive? «L’unione fiscale», quasi coatta, decisa a Bruxelles dai governi sotto pressione tedesca, non potrebbe invece essere una strada tortuosa e costosa per ri-costruire un «popolo europeo»? Il guaio è che si diceva così anche con l’introduzione dell’euro e poi in modo più specifico con la creazione della «zona dell’euro» che ora è alla radice dei problemi. Ancora una volta ci si concentra esclusivamente sulla moneta, sul fisco, sulle banche. Protagonisti rimangono i governi nazionali, a dispetto del fatto che la loro immagine non sia mai stata tanto bassa come oggi nella stima popolare. Eppure i governi nazionali sembrano essere gli unici attori della politica che si esprime in misure fiscali, economiche modulate su esigenze nazionali (o più realisticamente tarate sull’ammontare del proprio debito).
Che resta dei grandi discorsi e delle grandi aspettative verso la «società civile europea», i suoi potenziali di solidarietà e di giustizia? Quali attori alternativi – non necessariamente antagonisti – emergono dalla «società civile europea»?
Anziché limitarci a parlare in modo sommario di deficit democratico dell’Europa o di denunciare i criteri economico-monetari che uccidono la democrazia, cerchiamo di guardare dentro alla società europea. Per cominciare constatiamo una scarsa conoscenza delle differenze che caratterizzano le singole società europee nei loro meccanismi istituzionali e nelle loro culture politiche. Queste realtà vengono generalmente sottovalutate nei discorsi sulla «comunanza dei valori» europei. Invece sono le differenze che contano e che vengono fuori prepotenti proprio in tempo di crisi.
Prendiamo le due realtà tedesca e italiana che sono esemplari di quanto stiamo dicendo. Giorni fa su un grande giornale tedesco è uscito un pezzo di un noto pubblicista, eccellente conoscitore e amante deluso dell’Italia (come molti intellettuali tedeschi di oggi) che conclude così: «Affinché l’inevitabile futura messa in comune dei debiti europei (tramite eurobond o similari) non diventi un materiale incendiario del risentimento popolare dei tedeschi, non deve essere un assegno in bianco. Infatti chi ci garantisce che con il venir meno della pressione esterna non ricompaia ancora sulla scena un Berlusconi?».
Riemerge così il vecchio problema della «inaffidabilità» italiana e quindi della necessità di prendere misure cautelative. Il tutto ben al di là della composizione del governo. È vero che Mario Monti ha incontrato in Germania un pronto e diffuso consenso – con il rischio addirittura di provocare attese esagerate. Le foto di Monti accanto alla Merkel sono diventate subito familiari all’opinione pubblica con un sospiro di sollievo. Ma dietro alla cancelliera e dietro al presidente del Consiglio italiano ci sono due sistemi politico-istituzionali, due classi politiche, due culture e società civili difficilmente comparabili. Lo si vedrà già nelle prossime settimane che saranno cruciali.
Per il momento, ritornando al tema del «popolo europeo», mi preme dire che esso non nascerà per decreto né a Bruxelles né a Strasburgo, tantomeno a Francoforte per effetto delle misure di disciplina comune. Ma sarà il risultato (di lungo respiro) della ripresa intensa dei contatti di conoscenza diretta tra tutti gli attori politici, sociali e culturali che ora lavorano a testa china nel rispettivi Paesi, illudendosi che basti delegare a Strasburgo alcuni parlamentari per «fare l’Europa», quando in realtà spesso ci vanno per piantare in quella sede i propri paletti «identitari» nazionali. Non serve poi protestare che l’Europa – da lassù lontano – ci imponga vincoli e costrizioni che non fanno giustizia alla concretezza della nostra realtà. Se vogliamo davvero diventare (o, detto più elegantemente, ritrovarci come) popolo europeo dobbiamo cercare contatti diretti, senza aspettare sempre iniziative ministeriali.
La Stampa 11.12.11