Nell’Europa a due velocità nata l’altra notte a Bruxelles l’Italia c’è, come c’era nel maggio 1998 quando sempre a Bruxelles nacque l’euro e, prima ancora, quando fra il 1989 e il 1992 il Trattato di Maastricht venne prima concepito e poi firmato. Si dirà: è una ben magra consolazione, ora che l’Unione europea (Ue) si è spaccata in due blocchi.
Ma non saremmo così sicuri di questa interpretazione se teniamo nel debito conto gli accadimenti di questi ultimi mesi e il rischio, tutt’altro che teorico, di una disintegrazione dell’Unione europea e, in primis, dell’area dell’euro.
L’«unione di bilancio», il rafforzamento del «meccanismo europeo di stabilità» e il nuovo ruolo della Banca centrale europea (Bce) rappresentano, nel loro assieme, tre decisioni di non piccola portata.
D’altronde, se anche questa volta ci si fosse limitati alle pie intenzioni – come purtroppo molto spesso è accaduto nei summit degli ultimi anni con la crisi della Grecia già esplosa – o alla conservazione di fatto dello status quo anche la Gran Bretagna avrebbe probabilmente dato il suo assenso. Se non lo ha dato è perché qualcosa di profondo si è messo in moto, destinato a incidere sulle politiche fiscali e di bilancio dei singoli stati membri: in una parola, sulla loro sovranità. È questo un destino inevitabile per paesi che condividono la stessa moneta, come lo sono i tre grandi fondatori della Ue, Germania, Francia e Italia.
È positivo che nell’accordo intergovernativo che si è materializzato vi siano, con i tre grandi, tutti gli altri paesi di Eurolandia (17, come si sa) più, già nella notte, sei paesi che sono al di fuori della moneta comune (e siamo a quota 23), poi saliti a 26. In pratica, solo la Gran Bretagna rimarrebbe fuori.
Per amore di semplicità abbiamo riassunto le decisioni di Bruxelles nei tre punti sopra ricordati, ma naturalmente essi vanno visti come un insieme organico volto – per dirla con le parole dell’intesa – da un lato al «coordinamento rafforzato delle politiche economiche » e, dall’altro, allo «sviluppo degli strumenti di stabilizzazione per affrontare le sfide nel breve termine».
C’è un filo rosso che lega le varie prescrizioni dell’accordo per la nuova Europa, cioè l’introduzione del pareggio di bilancio nelle Costituzioni di tutti gli stati membri, le sanzioni automatiche in caso di sforamento dei tetti massimi fissati per il deficit (il famoso 3 per cento sul pil di Maastricht) e la fissazione di un sforamento strutturale massimo nella misura dello 0,5 per cento del Pil (aggiustabile per tenere conto del ciclo)?
Il fil rouge c’è ed è rappresentato da una più rigorosa disciplina fiscale comune, nei fatti e non a parole, rappresentata dalla necessità di governi e parlamenti nazionali di riconciliare mezzi e fini nella gestione della spesa pubblica, evitando di dare l’illusione che un paese possa vivere, all’infinito, al di sopra dei propri mezzi; è rappresentato dalla necessità di tenere conto, paese per paese così come a livello sopranazionale, degli interessi delle giovani generazioni che non possono ereditare solo la montagna indebitata. Se, come ci auguriamo, sarà la Commissione europea a poter svolgere il ruolo di guardiano delle nuove norme il disegno avrà una sua razionalità e funzionalità.
L’Italia, in un cammino repubblicano costellato di luci e ombre, ha saputo compiere veri e propri miracoli (pensiamo al 1992-’93 e al 1997-’98) quando il cosiddetto «vincolo esterno» ha operato con efficacia; ossia, si è trovata sotto la sorveglianza delle istituzioni comunitarie per il pieno rispetto dei trattati e, nel contempo, sotto il vaglio dei mercati finanziari.
Ebbene, le decisioni sull’unione di bilancio non fanno che rafforzare il vincolo esterno. Questo fatto, unito all’opera di un governo – quello di Mario Monti – che ha saputo in breve tempo varare una manovra di risanamento e riconquistare un posto a pieno titolo al tavolo dei grandi della Ue, è la migliore garanzia che la nostra marginalizzazione non è (era) un destino ineluttabile.
Altre decisioni assunte a Bruxelles meritano infine una menzione, come quella sull’anticipo dell’entrata in vigore (ora prevista per il luglio 2012) del fondo permanente salva- stati con una dotazione complessiva di 500 miliardi di euro che sarà gestito dalla Bce (fondo che tuttavia per l’opposizione tedesca non diventerà una banca); consistente anche il rifinanziamento che i paesi Ue hanno deciso per il Fondo monetario internazionale (200 miliardi).
Insomma, la munizioni per scongiurare una crisi sistemica sembrano esserci tutte, anche se la speculazione internazionale sa muovere masse di denaro gigantesche e sui mercati operano attori, come le agenzie di rating, che non rispondono a nessuno.
Guai ad abbassare la guardia. Nel complesso il segnale che giunge da Bruxelles è positivo e l’accordo – come ha osservato Mario Draghi – va visto come una «buona base per una disciplina nella politica economica dei paesi membri».
Di «eurobond», l’altro grande dossier aperto a livello Ue, si riparlerà fra sei mesi dopo un’ulteriore istruttoria. Sarà la volta buona? Il combinato disposto di un’efficace unione fiscale e di titoli di stato emessi a livello «federale » darebbe all’area dell’euro e, a ben vedere, a tutta la Ue quella forza per giocare il ruolo che le compete sullo scacchiere internazionale.
da Europa Quotidiano 10.12.11