Ci vorrebbe più lotta all’evasione fiscale, ci vorrebbero più tagli alle spese: restano queste le due principali critiche alla manovra Monti. Benché contro l’evasione ci sia una novità importante nelle prime ore sottovalutata, la trasparenza al fisco dei conti correnti bancari, molti altri provvedimenti vengono suggeriti. Meno chiare invece appaiono le controproposte sulla spesa pubblica.
Come ha detto ieri il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco, per avanzare proposte valide sulla spesa occorrono «meccanismi idonei a formulare analisi dettagliate delle singole voci» e «indicatori accurati di efficienza delle diverse strutture pubbliche». Già: e perché non si è mai riusciti a farlo finora, quando è da vent’anni che i governi si impegnano a tagliare le spese?
I limiti rivelati dai primi provvedimenti del governo Monti tornano utili a riflettere su quanto in profondità siano radicati i problemi da affrontare. Verifichiamo nella pratica che il male non può essere attribuito soltanto alla «casta» dei politici. Per l’appunto diversi esponenti di un altro governo tecnico, quello guidato da Carlo Azeglio Ciampi nel 1993, ebbero l’impressione che l’alta burocrazia non gli obbedisse appieno. Di episodi simili si ha notizia in queste ore.
Un governo tecnico, che non deve essere rieletto, presenta in sostanza due vantaggi. Primo, è meno condizionato dall’impopolarità di massa delle misure più severe (come l’aumento di imposte sulla casa). Secondo, è meno condizionato da gruppi di interesse ristretti che spesso riescono a bloccare riforme gradite a una maggioranza di cittadini (la tracciabilità dei pagamenti, o certe liberalizzazioni). Purtroppo questo non basta, perché le leve di comando restano le stesse: la pubblica amministrazione, i cui alti gradi spesso sono parte dello stesso sistema in cui prosperano sia l’inefficienza sia la corruzione della politica. Per giunta gli stessi tecnici in qualche caso sono solo la migliore espressione, ad elevati livelli di competenza, di un Paese frammentato in corporazioni e gruppi di interesse.
Quasi tutti gli economisti sono convinti che nella spesa pubblica ci sia molto che può essere tagliato senza danno. Ma l’insieme è così poco trasparente che risulta difficile capire come. Forse alcune cose nemmeno i ministri riescono a saperle. Ad esempio, può essere un fatto obiettivo che a un certo punto le Volanti della Polizia si trovino a corto di benzina per svolgere il loro indispensabile lavoro; ma sarà difficilissimo stabilire se davvero prima di arrivare a questo esito si sia tagliata ogni altra spesa meno utile.
Una delle voci più dubbie della spesa totale è quella dei «trasferimenti a imprese»; la stessa Confindustria riconosce che lì molto potrebbe essere eliminato. Eppure una lista completa e dettagliata sembra non sia disponibile. Chi in Parlamento ha provato a indagare ha incontrato muri di gomma innalzati dai burocrati. La ragioneria generale dello Stato fa i conti e insieme li controlla; le proposte per distanziare questi due ruoli vengono regolarmente insabbiate. Quando il burocrate oppone il «non si può fare» coraggio e astuzia sono necessari. Altrettanto serve per affrontare l’evasione fiscale, tanto radicata nel corpo della nostra economia. Lì il vizio tenace delle burocrazie sta nel vantare successi inesistenti, «stiamo già facendo», quando poi la Corte dei Conti periodicamente rivela che alle altisonanti cifre degli accertamenti corrispondono solo in minima parte incassi veri di imposte in più. In più, le lobby interessate a che il fisco resti facile da ingannare possiedono forse una potenza sufficiente anche a intimidire un governo tecnico.
Con questa manovra l’Italia diventerà, con una pressione fiscale del 45%, uno dei Paesi più tassati del mondo. Senza più ampi tagli alle spese e senza recupero massiccio di evasione, come ci dicono le analisi della Banca d’Italia, la competitività perduta non la recupereremo mai.
La Stampa 10.12.11