Ci sono due rischi quando si parla di scuola. Il primo è di venir abbacinati dall´emergenza, le legittime proteste per gli edifici fatiscenti, le classi pollaio, gli stipendi miserrimi… Il secondo è che la crisi dell´educazione passi per un tema da addetti ai lavori e non per una responsabilità di tutti. Capita così che le zone in penombra non si percepiscano nemmeno. Un esempio? Una delle questioni più urgenti di cui però non si sente mai parlare è questa: chi forma i formatori?
Faccio l´insegnante in un liceo da quattro anni, mi sono abilitato nel penultimo ciclo delle famigerate Scuole di specializzazione, ed è finita lì: quello è stato l´ultimo momento in cui qualcuno mi ha richiesto di imparare a educare. E il mio è più o meno il destino di qualunque docente, la cui preparazione didattica è affidata al suo buon cuore. Certo, i sedicenti corsi di aggiornamento esistono, ma ci si può imbattere in persone preparate e di buona volontà, come in docenti riciclati in vena di qualunquismi d´antan, o peggio ancora in formatori di società private che si accreditano come esperti, riempiendo facilmente il vuoto d´offerta e il loro portafogli.
Quello che manca non sono solo strumenti efficaci. Non esiste una progettazione sistemica (chi decide come si insegna e chi coordina? il ministero, gli enti locali, gli ex-provveditorati, i presidi?) Non c´è nessuno che valuti questa meta-formazione. Si sta perdendo una cultura della scuola pubblica (in nome di un´autonomia scolastica che spesso vuol dire ognun per sé). E – soprattutto – c´è un deficit spaventoso su cosa voglia dire apprendere oggi.
Eppure, se si rovesciassero anche un poco queste tendenze, i risultati si vedrebbero anche a breve termine. Giusto per dire: la vituperata Franca Falcucci nell´annata ‘87-‘88 obbligò tutti i maestri elementari a seguire corsi di aggiornamento sui nuovi programmi post-riforma. Non sarà solo un caso che da allora la scuola primaria italiana è (è stata?) una delle migliori del mondo.
Oggi chi è meno scoraggiato si organizza da sé. Se progetti istituzionali come Clssi 2.0 o Innovascuola coinvolgono solo pochi istituti, e se le scuole che acquistano le lavagne interattive spesso non hanno nemmeno la connessione a internet, qualcun altro rimedia con l´autoformazione: in fondo bastano un gruppetto di insegnanti e studenti che sappiano usare decentemente un pc. Per i contenuti digitali si può cercare di costruire una vera comunità che metta in condivisione contenuti scolastici e competenze didattiche: gratis e open-source, come dovrebbe essere una scuola che vuol dirsi pubblica e laica. C´è un esempio che funge da una stella polare in Italia ed è il network di lascuolachefunziona.it: lanciato qualche anno fa da Gianni Marconato, oggi è una specie di enorme collegio docenti permanente dove migliaia di insegnanti si confrontano, si scambiano lezioni, consigli sui metodi d´insegnamento, bibliografie aggiornate. Perché non accreditarlo a livello ministeriale? O perché per esempio non investire per trasformare Rai Educational in uno strumento effettivamente utile per chi educa, non usando soltanto materiale d´archivio ma producendo contenuti didattici ad hoc – la neodirettrice Calandrelli sta facendo passi da gigante – , ma basta prendere spunto dalla sezione learning della BBC o da prometheanplanet. com o da khanacademy. org: non è mica così complicato.
Ancora: non è solo sull´innovazione tecnologica e sull´allargamento del dibattito tra docenti che dovrebbe puntare una politica scolastica seria (leggi: decente), quanto su un ripensamento di che cosa vuol dire insegnare e apprendere. È possibile che la maggior parte dei docenti sia totalmente digiuna di scienze cognitive o di scienze sociali in generale? Possibile che per molti l´approccio in classe sia rimasto essenzialmente lo stesso di trent´anni fa? Vi sembra proprio impensabile diffondere metodologie come il cooperative learning, la peer education, il capability approach non soltanto nei convegni organizzati da un Centro Studi Erickson, per dire? Vi pare un´utopia una scuola dove citare i nomi di Albert Bandura, Janusz Korczak, Henry Jenkins, Reuven Feuerstein, Elinor Ostrom, Richard Gerver – cioè di psicologi dell´apprendimento, di teorici della comunicazione sociale, di economisti che si occupano del bene comune – risulti addirittura banale?
Se insomma si cominciassero a attraversare i saperi, chi va in classe si renderebbe conto immediatamente di quale sfida gli si chiede di affrontare. Per esempio capirebbe che il cervello dei ragazzi è strutturalmente diverso da quello dei loro genitori (lo sa bene chi guarda una serie tv insieme a suo figlio e si sente lento e stupido), che i migliori risultati a livello scolastico si ottengono stimolando la creatività (si evince chiaramente dai dati OCSE), che una didattica dei sentimenti può dimostrarsi utile come intervento sociale (confrontate quello che produce un ricercatore sociale come Stefano Laffi con la sua agenzia Codici con le tante accuse di nichilismo). Alla fine non serve molto per riconoscere una verità tanto importante quanto lapalissiana: che la scuola non deve soltanto – come si dice – stare al passo con le trasformazioni sociali (e già questo non accade), ma deve immaginare un mondo diverso. Più multiculturale, più equo, con ragazzi capaci di mettere in discussione le nostre convinzioni su di loro e su quello che c´è là fuori. E questo va detto quasi con egoismo: c´è chi ha tutta la vita davanti per rimediare ai nostri danni, il rischio più immediato è che i veri handicappati sociali diventiamo proprio noi, gli adulti che non hanno saputo educare.
(L´autore è insegnante e scrittore)
La Repubblica 09.12.11