Caro ministro Profumo, l’università italiana vive da dieci anni una situazione sempre più difficile. Lei ne è una figura autorevole e non c’è quindi bisogno di illustrarle i dati oggettivi che sono reperibili in qualunque analisi internazionale indipendente: una cronica carenza di finanziamenti, soprattutto per le infrastrutture e per la ricerca; un carico contributivo sulle famiglie degli studenti tra i maggiori in Europa; un drastico ridimensionamento numerico del personale docente e tecnico. Sono tutti fattori che hanno indebolito l’azione e la capacità innovativa degli atenei italiani.
Ma ancor più li ha indeboliti il furioso attacco mediatico alla credibilità del sistema che, anche se giustamente motivato da gravi episodi di malcostume da estirpare con decisione, ha finito col travolgere la fiducia nell’intera università.
Questa fiducia deve essere assolutamente ristabilita. È il primo obiettivo politico di un ministro che non si voglia trasformare nello spietato accusatore dello stesso sistema che governa.
È un obiettivo per il quale ci sono tutti i presupposti. Infatti la ricerca universitaria italiana dà ancora oggi risultati eccellenti su scala internazionale, soprattutto se rapportati all’esiguità dei finanziamenti e del numero di ricercatori.
La formazione degli studenti, pur in presenza di problemi infrastrutturali e organizzativi, è di ottimo livello se comparata con gli standard europei. Il ruolo culturale, economico e sociale di ciascun ateneo nel suo territorio è in costante crescita e permette di recuperare importanti spazi di sviluppo. La dedizione al lavoro del personale universitario è, salvo eccezioni, ammirevole nonostante che cominci a diffondersi scoramento. Si tratta di un patrimonio nazionale che va difeso e rafforzato, non svilito e disperso. Non c’è del resto alcuna speranza di sviluppo duraturo per un paese che non “ama” la sua università.
È giusto che le chieda sempre i massimi risultati e la massima trasparenza, ma anche che ne riconosca il ruolo cruciale.
Servono dunque chiare discontinuità rispetto al recente passato. In questo momento di crisi non sarà facile reperire risorse finanziarie che compensino i pesanti tagli già subiti o addirittura riportino il finanziamento a crescere gradualmente verso le medie europee.
I segnali di inversione di rotta, forse limitati in termini finanziari, devono però essere forti in termini politici. Si ridia innanzitutto più autonomia e meno burocrazia agli atenei e contemporaneamente si punti ad una valutazione stringente della qualità dei risultati ottenuti, senza sconti e senza ritardi. La si smetta con l’esasperato centralismo dirigistico, col delirio dei prerequisiti numerici, con la confusione dei ruoli negli organi di governo e di controllo del sistema.
Le leggi potranno essere modificate o abrogate nei loro aspetti meno condivisibili ma intanto vanno applicate in forma non occhiuta né burocratica, attenti a incentivare le innovazioni e le pratiche più efficaci per un miglioramento continuo, piuttosto che il cieco rispetto delle norme.
La ricerca universitaria va rivalutata perché costituisce l’ossatura e la parte maggiore del sistema ricerca del paese, oltre che il presupposto per una formazione avanzata di buona qualità. Si privilegi la curiosità innovativa e l’avanzamento della conoscenza, in ogni campo.
Si sostengano i progetti di ricerca di interesse nazionale il cui finanziamento è sceso ai minimi storici, per giunta in uno stato di perenne incertezza su tempi e regole, ma si riveda il meccanismo di assegnazione dei finanziamenti con l’uso di metodologie e competenze internazionali per eliminare i conflitti di interesse.
Non si dimentichino le dotazioni infrastrutturali universitarie, il cui capitolo sul bilancio statale è stato chiuso nel 2002 e mai più riaperto. Sono ormai al lumicino tanto che spesso le condizioni logistiche di lavoro sono da terzo mondo e la strumentazione scientifica obsolescente. Sulla didattica il ministero, anche in vista della valutazione e dell’accreditamento, monitori e indirizzi senza imposizioni burocratiche il passaggio dalle facoltà ai dipartimenti per evitare che nei corsi di studio si indeboliscano la progettazione culturale, soprattutto negli aspetti multidisciplinari, e l’organizzazione.
Un altro settore in cui l’Italia è paurosamente indietro è il welfare studentesco, in particolare per il sostegno agli studenti capaci e meritevoli provenienti da famiglie non abbienti. Ne risultano ostacolate sia la mobilità sociale che quella geografica, mentre diminuiscono gli immatricolati e non aumentano come dovrebbero le percentuali di laureati sulla popolazione attiva. Occorre innanzitutto garantire i servizi del diritto allo studio a tutti coloro che rientrano nei requisiti di reddito e merito per le famiglie prive di mezzi.
Ma occorre intervenire, con prestazioni graduate rispetto alle necessità, anche nei confronti di studenti meritevoli provenienti da famiglie con mezzi ridotti. Non si dimentichi poi che tutti gli studenti hanno diritto ad avere gli strumenti e le opportunità per una soddisfacente crescita personale, culturale e professionale, per una rapida conquista dell’indipendenza, per una compiuta cittadinanza attiva.
Occorre infine riaprire e regolarizzare sia il reclutamento di giovani ricercatori e professori di talento, sia le progressioni di carriera per coloro che lo meritano. Il sistema è bloccato da anni, la sua fluida regolarità è un miraggio.
Con le ultime leggi i giovani hanno visto aumentare sempre più l’età d’ingresso nei ruoli universitari. Così molti hanno rinunciato a questa carriera o hanno accettato offerte di lavoro all’estero. Si sciolgano almeno le incertezze delle nuove procedure concorsuali, semplificandole e accelerandole sia per i professori che per i ricercatori a tempo determinato, lasciando la funzione meritocratica alla valutazione ex post piuttosto che a intricate regole ex ante.
da Europa Quotidiano 09.12.11