«Buona fortuna figliolo!», così si salutavano un tempo i giovani che decidevano di fare le valigie e andarsene in cerca di opportunità lontano da casa. Oggi invece è a quelli che restano che bisogna augurare buona fortuna, perché per chi resta inchiodato nel proprio Comune di residenza le prospettive sono sempre più ristrette. Non è tanto la mobilità geografica, di per sé, a far la differenza, ma la possibilità di accedere ad opportunità diverse e qualificanti, di maturare esperienze più variegate. Perché oggi è finita l’era delle carriere «verticali», le storie degli impiegati che da semplici fattorini finiscono la loro carriera come dirigenti o presidenti di quella stessa azienda. Oggi è l’era delle «boundaryless careers», le carriere senza confini, come scrisse qualche anno fa la professoressa Denise Rousseau, esperta di organizzazioni e lavoro.
Sono le carriere che sconfinano, che travalicano settori tradizionali, che rompono le gerarchie aziendali dalle linee verticali per muoversi lateralmente da un’organizzazione all’altra accumulando in pochi anni esperienze che vecchi top manager non sono riusciti ad accumulare in una vita. E sono carriere che sempre più travalicano anche confini geografici.
L’esplosione di mercati emergenti come la Cina, l’India o il Brasile, per esempio, non dà solo lavoro alla manodopera di quei Paesi, ma sta aprendo molte opportunità anche a progetti di altissimo livello nei settori dell’ingegneria, dell’economia, dell’architettura, dell’informatica, della comunicazione.
Certo, per chi cresce in città come New York o Londra, esposto a mille opportunità diverse, è possibile costruire percorsi interessanti e gratificanti anche senza spostarsi geograficamente. Ma per i milioni di giovani cresciuti nella provincia italiana, difficilmente queste opportunità si materializzano sotto casa, e la capacità e la volontà di rincorrere opportunità altrove diventa fondamentale. Eppure, nonostante le difficoltà crescenti di chi si muove in contesti più locali e tradizionali, i sondaggi ci dicono che sono ancora relativamente pochi i giovani italiani che sono disposti a muoversi, soprattutto al centro e al Nord Italia. A bloccarli non sono soltanto gli affetti familiari, ma la scarsità di informazioni, la mancanza di una guida, l’incertezza e la lunghezza dei percorsi.
A pesare in queste scelte vi è anche l’influenza di mèntori e genitori ancorati ad altre epoche, abituati a considerare una laurea sotto casa uguale a quella presa a Duke, Eton o Carnegie Mellon (anche perché la maggior parte dei nostri genitori, diciamo la verità, non ha idea di cosa sia Duke o Carnegie Mellon), a temere lunghe lontananze e difficoltosi rientri. Una cosa è vera: nonostante chi vada all’estero sia spesso tacciato di cercare scorciatoie, di solito accade l’esatto opposto. I percorsi e le esperienze fuori confine sono spesso lunghi e faticosi.
Lo sanno bene anche tutti i giovani ricercatori che negli anni passati hanno scelto la strada del dottorato negli Stati Uniti. Anche se oggi qualcosa è cambiato, fino a tempi molto recenti la differenza è stata netta: un dottorato in Italia durava tre anni, non aveva esami, e dava subito la possibilità di mettere un piede nella porta dell’accademia italiana.
Un PhD americano invece durava in media 5-6 anni, ti massacrava di corsi ed esami, e ti faceva perdere contatti per un eventuale rientro in patria. Tant’è che in certi casi erano gli stessi professori italiani che sconsigliavano ai propri studenti di partire. Ma di fronte a scelte che possono cambiare radicalmente la nostra formazione e il nostro futuro sono altre le considerazioni da fare. L’unico criterio da seguire deve essere la qualità e la rispondenza ai propri bisogni, necessità e attitudini. Se l’opportunità che si presenta «sotto casa» risponde a queste caratteristiche, sarebbe sciocco andarsene. Ma quando così non è, è sciocco restare.
Ed è questo il mantra che dovrebbe accompagnare ogni giovane nelle proprie scelte di studio, di lavoro e di crescita personale: la scelta della qualità, oggi più che mai. Perché anche se ci lamentiamo spesso dello scarso riconoscimento dei «meriti», tuttavia col tempo la qualità viene sempre fuori ed è la miglior assicurazione contro crisi e globalizzazione, perché è l’unica carta spendibile in ogni parte del mondo.
Non è facile entrare in quest’ottica; molti genitori incitano ancora i giovani a scegliere le strade che sembrano più brevi, più rapide, che danno un «titolo» sicuro, che sono o appaiono più comode. Ma sono quasi sempre scelte sbagliate. Perché c’è sempre qualcosa che si sacrifica sull’altare della comodità e della scorciatoia. E questo qualcosa è quell’approfondimento, quel sacrificio che ci consente di imparare e capire non solo il settore in cui lavoriamo, ma qualcosa riguardo a noi stessi, a ciò che sappiamo fare meglio, e che ci aiuta a forgiare e indirizzare meglio il nostro percorso futuro.
Il talento non è innato, e non ci viene rivelato come un’apparizione. Lo si scopre così, col tempo, le esperienze, il confronto con gli altri, i progetti e le sfide sulle quali ci misuriamo. Sono queste esperienze che ci aiutano a scoprire cosa veramente amiamo, cosa ci distingue dagli altri nel complesso e competitivo mercato del lavoro. E su queste consapevolezze è più semplice non solo costruire carriere gratificanti, che ci aiutano a trovare un lavoro che ci piace, ma anche dispiegare tutto il nostro potenziale umano e personale.
Certo, percorsi del genere implicano anche molti errori, ripensamenti e sconfitte. Ma l’epoca delle carriere fulminanti degli Anni 80 è finita almeno quanto l’era dei lavori fissi degli Anni 70. E per quanto possa spaventare, questa era di «carriere senza confini» è anche ricca di opportunità, basta non perdersi nella ricerca di scorciatoie, ma investire in se stessi e non aver paura di guardare fuori.
La Stampa 04.12.11