Bisogna dire che – da un certo punto di vista – si tratta di un gioco da ragazzi: succedere all’immeritevole Gelmini, rea – oltre che di una delle operazioni più devastanti a carico della scuola pubblica italiana – anche di una serie di gaffe epocali, determinate sostanzialmente da una assoluta mancanza di conoscenza e da un mix esplosivo di protervia e incoscienza, non è esattamente un’impresa titanica. Ci vuole poco.
Molto più ci vuole per dire – e, soprattutto, fare – qualcosa di significativo in un settore dalle dimensioni elefantiache, ridotto ai minimi termini dalla “cura da cavallo” annunciata (e poi attuata) nel 2008 da Tremonti e Gelmini.
Durante il IX congresso dell’Anp (Associazione Nazionale Presidi) qualche giorno fa finalmente il ministro Profumo è uscito allo scoperto, ribadendo la centralità di scuola e università per il rilancio del Paese.
A parte alcuni evergreen – come l’evocazione della “ capacità di rispondere con flessibilità e progetti educativi più personalizzati alle esigenze dei nostri alunni” o il fatto che i mezzi di comunicazione e interazione sono “in continuo mutamento, e dunque una scuola proiettata nel futuro non può limitarsi a un’interazione unica e statica che si estrinsechi nel professore in cattedra e nello studente al banco di fronte” – ancora una volta e per l’ennesima volta il ministro si è soffermato sulla questione della valutazione.
In questo e in altri interenti pubblici Profumo continua a parlare di valutazione come se il nostro Paese avesse un sistema all’altezza di molti altri Stati europei, dove la valutazione è una pratica da decenni, validata culturalmente ed economicamente.
Non credo invece che per “consentirci di riflettere sulla reale efficacia del lavoro di didattica, e per metterci nelle condizioni di migliorarci”, come ha detto il ministro, possa essere funzionale un semplice potenziamento delle attuali pratiche valutative all’italiana. Va piuttosto introdotto un cambiamento di rotta.
La valutazione è innanzitutto una pratica di democrazia, di rendicontazione e di miglioramento di qualsiasi sistema. È un modo per dire ai portatori di interesse, i cittadini medesimi, gli enti locali, lo Stato: eccoci, questo è ciò che abbiamo fatto, a fronte dei fondi pubblici che ci sono stati riservati. Se questa è la valutazione. E questa valutazione deve considerare le variabili alle quali ciascun sistema è sottoposto: nel caso delle scuole livello socioeconomico dell’utenza, ubicazione, disponibilità di risorse, significatività del rapporto con il territorio.
E questo tipo di indagine sui risultati e sulle loro ragioni e implicazioni deve essere volta al monitoraggio e al miglioramento del sistema: le sue rilevazioni devono servire a questo, non essere presentate – come nel recente passato – come astratti parametri per introdurre la logica “premio” vs. “punizione” nei confronti di una categoria di lavoratori considerata in modo preconcetto inefficiente e fannullona.
Né tanto meno sfociare in mera individuazione e selezione darwiniana delle unità scolastiche i cui risultati siano insufficienti rispetto a parametri e traguardi prefissati, criterio a cui rischia di indirizzare la famosa lettera del novembre scorso a firma Olli Rehn, contenente 39 quesiti sui provvedimenti di natura economica annunciati dal precedente governo, qualora nel rispondere alla domanda “Quali caratteristiche avrà il programma di ristrutturazione delle singole scuole che hanno ottenuto risultati insoddisfacenti ai test INVALSI?”, venisse assunta una prospettiva centrata sulle singole unità scolastiche svincolandole dall’analisi del sistema nel suo complesso.
Non è possibile, ad esempio, scindere i probabili esiti insoddisfacenti di un istituto professionale non solo dal territorio di riferimento, ma dal flusso di popolazione scolastica in ingresso dalla scuola media e dalle modalità dell’orientamento degli studenti scelte da parte di quest’ultima.
In ogni caso, perché la questione della valutazione e la partecipazione diretta ai suoi processi e alle sue procedure siano vissute dalla comunità scolastica con adesione (e non con sospetto e propensione al conflitto) va costruito un modello davvero affidabile sul piano scientifico, frutto – come nei Paesi europei considerati punto di riferimento per l’innovazione necessaria nel nostro – di significativi investimenti ad hoc e di studi approfonditi, di dibattito e di confronto aperto, non di imposizioni e forzature dell’ultimo momento, sulla base di un imparaticcio che viene rovesciato sull’insieme delle scuole in modo affrettato e senza vero coinvolgimento culturale degli insegnanti e degli studenti.
da http://www.pavonerisorse.it