È una rivoluzione per chi si occupa di mafie. La sentenza del Tribunale di Milano del 19 novembre, con le 110 condanne al processo sulla ‘ndrangheta al Nord, e l´inchiesta che ha portato all´arresto di un giudice cambiano la storia del potere – non solo criminale – del nostro Paese. La sentenza e questa inchiesta sono di carattere epocale perché mostrano una volta per tutte che le mafie comandano anche e soprattutto nell´economia del Nord Italia. Al Sud agiscono nelle modalità più violente, sia militari sia di accaparramento degli appalti. Considerano il Mezzogiorno come un territorio a loro completa disposizione. Il Nord, invece, è il luogo del silenzio facile, degli affari redditizi, dell´inesistente cultura dell´antimafia nelle istituzioni e di una robusta omertà da parte di tutti. Un luogo perfetto.
Il meccanismo di insediamento è capillare. L´imprenditoria del Nord Italia ha un canale di approvvigionamento di capitali attraverso il narcotraffico. L´economia italiana che già da anni subisce una progressiva crisi ha trovato nel territorio dell´illegalità capitali freschi. Soprattutto liquidi. L´insegnamento che emerge dalle carte dell´inchiesta porta a questa certezza: in economia vince chi riesce a usare ogni possibilità per sbaragliare la concorrenza. Chi segue le regole o non esiste o è già uno sconfitto.
Questa indagine che vede coinvolti personaggi delle istituzioni descrive la società civile mafiosa. Non affiliata: non ci sono pungiture, non ci sono battesimi, non ci sono pistole in faccia. I personaggi di questa inchiesta entrano in rapporto con i boss come se fossero normali interlocutori, senza dar troppo peso morale al proprio comportamento. Sembrano non avere neanche piena coscienza di quello che fanno. Forse hanno la sensazione, molto italiana, che così fan tutti, anzi che qualcuno starà facendo sicuramente peggio di loro.
E così scopriamo (se le indagini venissero confermate) un giudice che sarebbe stato corrotto favorendo la carriera della moglie, dirigente della provincia diventata commissario straordinario della Asl di Vibo Valentia e poi a sua volta inquisita per mafia. Scopriamo un altro magistrato, Giancarlo Giusti, di Palmi, che sarebbe stato corrotto con una serie di viaggi e soggiorni a Milano pagati dall´associazione con l´utilizzo di una ventina di escort diverse. La frase di Giusti emersa dalle intercettazioni “io dovevo fare il mafioso, non il giudice” è indice di una connivenza gravissima quanto cialtrona. Neanche il più corrotto dei magistrati si è mai relazionato così direttamente ad un affiliato: anche perché il suo ruolo, la sua professione è la “merce” che vende al mafioso, e non può svilirla. In questo caso invece c´è superficialità, connivenza, complicità assoluta: la corruzione viene percepita come un diritto naturale e acquisito.
Usando un concetto di Guy Debord, definito per comprendere la società dello spettacolo “il vero è un momento del falso” si può affermare che dopo queste inchieste pare evidente che l´illegale sta diventando un momento del legale. In passato l´attività criminale si contraddistingueva per l´efferatezza delle azioni, per i “lavori sporchi”, per le operazioni evidentemente e platealmente fuorilegge. Era un mondo a parte. Oggi, e da molto tempo, non più. Sempre di più il coinvolgimento di settori di società con il mondo criminale avviene seguendo un percorso imprenditoriale e politico almeno all´apparenza lineare, in cui i momenti di illegalità sono appunto “momento”. Fasi che servono per guadagnare di più, per ottenere favori, per emergere nel proprio campo. E in quanto “fasi” le persone che le vivono si perdonano facilmente, non si sentono nè traditrici né corrotti. Sembra delirante ma è ciò che emerge dall´inchiesta condotta dal pool del pm Boccassini. Il metodo Boccassini, erede del metodo Falcone, si contraddistingue per la ricerca capillare delle prove e un prudente rigore nella comunicazione delle indagini ai media: nulla parte da sensazioni o solo dalle intercettazioni o dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia. Ilda Boccassini è stata spesso attaccata, isolata, stressata dal fango e dalle accuse di politicizzazione. Tutto questo è accaduto anche dentro l´ambiente della magistratura stessa. Queste inchieste e queste sentenze dimostrano, invece, che il suo metodo è rigoroso, ed è grazie al suo lavoro che possiamo gettare luce su una realtà del Nord che tanti non vogliono vedere.
Esattamente un anno fa La Lega e l´ex ministro Maroni rimasero scandalizzati quando denunciai in tv che le mafie al Nord interloquivano con i poteri, con tutti i poteri, nessuno escluso. Domandavo cosa facesse la Lega mentre dilagavano, e dilagano, i capitali criminali. Cosa facesse mentre gli imprenditori lombardi messi a dura prova dalla crisi economica entravano in rete con le ‘ndrine. Il quotidiano della famiglia Berlusconi lanciò addirittura una campagna e una raccolta di firme contro di me, reo di “dare del mafioso al Nord”.
Io non ho mai detto né pensato che “il Nord è mafioso”, naturalmente. Ma bisogna riconoscere che, oltre le fiaccolate contro il soggiorno obbligato e qualche iniziativa simbolica tesa ad aumentare la repressione, gran parte della politica e della cultura del settentrione italiano(con alcune coraggiose eccezioni, per fortuna) è stata silente sul potere delle cosche. E ora vorrei vedere i visi, ascoltare le parole di chi per decenni ha nascosto la testa nella sabbia, ha fatto finta di niente, ha permesso che il Nord diventasse parte fondamentale dell´economia mafiosa. E chiedere: perché?
La Repubblica 01.12.11